Lezione di guida. La partenza in salita.
Scritto da verdeanita il gennaio 30th, 2008 | 6 comments

L’Istruttore mi spiega che devo coordinare freno e frizione e che posso usare sia il freno normale che quello a mano.
Faccio entrambe le cose e poi dico: "Ma è più facile con il freno a mano".
E lui: "Boh, è che molte persone trovano difficile fare contemporaneamente una cosa con i piedi e una cosa con le mani".
E io: "Ma io suono la batteria, non ho questi problemi!".
Sono soddisfazioni.

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Toglietemi tutto, ma non le mie scarpe azzurre
Scritto da verdeanita il gennaio 17th, 2008 | 8 comments

Rileggo un mio vecchio post che non ha neanche un anno e mi sembra che di tempo ne sia trascorso un sacco.
Era marzo e io ero nel pieno della vita universitaria. Avevo sperimentato le prime lezioni, avevo fatto i primi esami ed ero tornata a casa durante le vacanze tra un semestre e l’altro.
Ero nel pieno della vita universitaria e avevo il cuore strabordante di tutto.
La mia amica Sofia, che era stata con me al ginnasio, aveva deciso di partire per Dublino ed ero andata a salutarla e, mentre lei parlava con tutti i suoi amici che per qualche mese non avrebbe rivisto e sgranava i suoi immensi occhi azzurri con stupore e gratitudine, io parlavo con Anna del mondo universitario che ci stava spaesando.
Facevo sogni assurdi e surreali, in quel periodo: sognavo ripetutamente di essere ancora al Liceo, nella stessa classe. Anche se nel frattempo ero anche all’università.
Mi pareva di essere in vacanza, come se la scuola fosse lì lì per ricominciare.
Pochi giorni dopo ero tornata nel liceo bicentenario.
Ci sono giorni, se provo a ricordarli, che mi paiono eccessivamente luminosi e dilatati. Hanno un odore particolare o sembrano piccoli film ripresi dalla giusta angolazione, con una luce fantastica, una sceneggiatura accurata e una colonna sonora perfetta.
Ci sono giorni talmente belli da essere dolorosi.
Quei tre giorni, o forse sono stati solo due, in cui tornai sui miei passi, sono così.
Mi ricordo che mentre me ne stavo in aula magna, con le All Star azzurre davanti a me, poggiate sulle sedie di legno, e pensavo – Ancora, sono qui ancora e ho le stesse scarpe e c’è sempre Alex che suona e io sono sempre qui, con le mie scarpe sulla sedia e la borsa gettata su questo pavimento distrutto, ancora – avevo in testa Glosoli dei Sigur Ròs e stavo un po’ esplodendo come la scena finale di Zabriskie Point con un sentimento contrario. Semplicemente perché avevo quel piccolo momento nel cuore, ed ero lì, ancora, ma in quell’ancora c’erano un sacco di altri momenti uguali, con le mie scarpe sulla sedia, ma le persone intorno a me erano tutte diverse e allora, provare a pensare, in quel momento, a tutti gli altri momenti mi faceva scoppiare il cuore. E Glosoli era così. Perché c’era una batteria che spingeva sempre nella stessa direzione e diventava sempre più potente e grande, come il becco di un pulcino che cerca di uscire dall’uovo e come tutto il tempo trascorso con quelle scarpe su quella sedia che cercava di uscire dal mio corpo per trovare il proprio posto in quell’aula magna cadente.
A Bologna avevo una casa per cui non provavo affetto, pochi amici, nessun luogo caro e l’orario dei treni stampato a memoria nella mia testa, sempre pronta a tornare.
Pochi giorni fa ho dato l’ultimo esame del primo anno. L’unico che avevo lasciato indietro.
Sono tornata a Bologna da sola, sono tornata in una casa fredda perché non credevo valesse la pena accendere il riscaldamento.
Però, una volta arrivata in via Stalingrado avevo urlato "Casaa!!" e avevo trovato della posta nella buca delle lettere.
E poi ero tornata nell’aula studio di viale Berti, improvvisamente vuota, inaspettatamente deserta. Ma in facoltà avevo trovato tutti i miei colleghi.
Incredibilmente, anche se era passato appena un mese dall’ultima volta che li avevo visti, sembravano tutti un po’ invecchiati.
Ed è stato bello ritrovarsi per caso, a fare una di quelle cene da fuori sede, cosicché ti ritrovi una tavola piena di pietanze che provengono da Ferrara come da Catanzaro.
E ora, nella mia testa, c’è una nuova canzone dei Sigur Ròs. E’ diversa perché è meno dispersiva. E’ più precisa e sa quello che ha da dire. Non per questo Glosoli è meno bella. Però è piacevole ritrovarsi in queste due canzoni, e pensarci.
E’ esplodere sempre, ma in modo diverso.
Mi sembra quasi che questa non sia esattamente un’esplosione, ma una grande spinta data da tante cose.
Credo siano tanti stimoli nuovi, e il sentimento che di strada ne ho fatta, e che adesso, se mi guardo indietro, ho un "passato" anche a Bologna.
E non vedo l’ora di tornare a qualche concerto, a farmi pestare i piedi dal mio dj preferito.
Ci sono tante cose che voglio fare.

Glosoli – Sigur Ròs

Hljòmalind – Sigur Ròs

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Non voglio altro che restare per sempre proprio dove mi trovo.
Scritto da verdeanita il gennaio 7th, 2008 | 2 comments

Che senso ha indossare ancora della scarpe talmente vecchie che sono più i buchi della stoffa?
E’ sempre difficile tornare a scuola o al lavoro, il lunedì mattina. Figuriamoci poi dopo le vacanze.
Ecco, oggi, per un certo gruppo di persone era, se possibile, un po’ più difficile. Mediamente, un po’. Per alcuni probabilmente non cambiava nulla, ma per altri era difficilissimo.
Per me, ad esempio, non è stato uno sforzo così grande. Però pensavo alle altre persone e avrei voluto fare qualcosa per loro, anche se, nella pratica, non potevo fare nulla. Così ho fatto una cosa un po’ stupida, che non ha cambiato la vita a nessuno. Però l’ho fatta.
Anche io mi sono alzata questa mattina, come se avessi dovuto andare a scuola. Ho pensato a quello che facevo due anni fa e ho ripetuto le stesse cose. Alle sette ho messo la sveglia con i Pogues, mi sono alzata, lavata, vestita. Ho preparato la cartella con i libri. Ho indossato le mie vecchia All Star e il mio vecchio cappotto vergognolo. Ho preso la bicicletta e sono andata in centro. E sono passata davanti alla scuola, come se effettivamente dovessi andarci. Tutto qui.
Ieri sera, prima di addormentarmi, ho ripensato alla mia maturità.
Io mi vergogno tantissimo del mio voto di maturità e voi direte che non conta niente, nella vita.
Però a me dà fastidio.
Mi dà fastidio perché quel voto, allo stesso tempo, so meritarmelo ma so anche che non mi rappresenta per nulla.
So di meritarmelo perché, oggettivamente, dopo tre scritti perfettamente sufficienti e un orale disastroso, i professori non potevano darmi di più. Probabilmente mi hanno anche dato di più. Quei due miseri punticini che mi separano da un vero calcio nel culo io li ho sempre interpretati come: "Anita, volevamo darti di più, ma come facevamo?".
E’ anche vero che probabilmente non mi ero ammazzata di studio, ma non è questo il punto.
Il punto è che quell’orale disastroso era stato il coronamento di un anno orrendo, vissuto in una classe dove mi mancava l’aria. E quello che è successo all’orale non è colpa dei professori, che mi hanno fatto anche domande semplici o domande di cui sapevano che sapevo la risposta e anche domande bastarde, ricevendo lo sguardo incredulo dei colleghi. Mi dà fastidio il fatto che tutte le mie ansie e la voglia di finirla in fretta erano date da quegli ultimi mesi, in cui avevo segnato sul diario i giorni che mancavano alla fine, godendo nel vedere che ogni mattina diminuivano, quando in realtà sapevo che quel posto mi sarebbe mancato come nessun altro al mondo.
Sessantadue.
E forse, per quello che mi ricordo di greco o filosofia, un sessantadue è anche corretto.
Ma per quello che umanamente ho imparato, un sessantadue è troppo poco.
Non vuol dire niente.
E per il resto della mia vita, quando dovrò presentare un curriculum, sembrerà che io, in quei cinque anni, non abbia imparato niente. Ed è tutto il contrario.
Ecco perchè odio quel sessantadue.
A volte mi verrebbe voglia di rifarlo tutto, il liceo, solo per cambiare il voto sul diploma.
Tra una settimana ho un esame. Se vado in biblioteca riesco a concentrarmi meglio.
Tra le biblioteche di Verona c’è la Civica, che si comporta com un negozio del centro e apre alle nove e il lunedì sta chiusa (come i negozi del centro, appunto), e la Frinzi, che da brava biblioteca universitaria ha fatto suo il quarto d’ora accademico e apre alle otto e un quarto.
E oggi sono tornata qui, con i miei libri e i miei appunti disordinati.
E mi fa strano pensare che, alla fine, sia stato cos’ facile riuscire ad alzarsi, mentre per altri sarà stato così difficile e invece c’è anche chi non si alzerà più la mattina per andare a scuola. Per andarci a studiare e per andarci a insegnare. Non si alzerà più la mattina e basta.
E come a me dà fastidio quel sessantadue che ritengo ingiusto c’è a chi dà fastidio che qualcuno abbia studiato tanto e abbia fatto tanto nella vita per poi cadere da un albero e non alzarsi più. Troppo presto. A che serve?
E sono le persone a cui questo dà più fastidio che hanno fatto così fatica ad alzarsi questa mattina. Perché a lui, quel professore tanto amato e che sapeva tante cose e che alla fine è morto in modo così stupido, così casuale, così insignificante e poco eroico, non ha dato fastidio. Non si è accordo di nulla, lui.
E anche se l’ho visto e conosciuto poco, ho ricordi molto importanti legati a lui.
E immagino che dentro alle mura bicentenarie che tanto mi sono care, oggi ci sia tanta tristezza e silenzio e compostezza.
E tante domande dentro a mille e cinquecento teste.
E tante domande anche fuori, nelle teste di chi in quelle mura bicentenarie ci è passato.
E anche nella mia, che per fare qualcosa ne ho fatta una così stupida, come alzarmi presto la mattina.

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