Zgrada BIGZa
Scritto da verdeanita il gennaio 18th, 2013 | 3 comments

Ero appena arrivata a Belgrado. Avevo visto solo l’aeroporto. Milica a Bojan mi stavano portando a casa per farmi lasciare le borse. Poi, mi avevano detto, saremmo andati a bere una birra.
Fu uno dei primi edifici che vidi. Il primo, l’imponente Genex Tower, mi aveva dato il benvenuto già all’aeroporto. Quello dopo, ancora squarciato dai bombardamenti, non mi avrebbe incuriosito così tanto.
Il Bigz era pieno di finestre ed era enorme, ma non sembrava niente di speciale. Ma me lo dissero subito: “Questo è il Bigz, una volta era la sede di una ditta di stampa, poi, dopo la crisi economica, l’azienda che lo possiede ha cominciato ad affittare gli spazi e adesso è pieno di artisti, sale prove, locali.”

Lo esplorai un paio di settimane dopo. Ci andai una sera con Jenn, la sera che scoprii i Kriške. Ci portai tutti quelli che passarono a trovarmi. Ci portai Mara, la sera che la incontrai per caso dopo due anni, proprio lì a Belgrado. La stessa sera che un tizio ci invitò nel suo studio solo per ascoltare i Joy Division e io mi misi a suonare la batteria completamente sbronza.

Mi piaceva fare i sette piani di scale tutti di fretta, specialmente con qualcuno dietro di me che non capiva perché fossi così eccitata. Mi piaceva arrivare a чекаоница, il jazz bar sul tetto, e vedere tutta la città.

E non vedo l’ora di tornarci.

Categories: belgrado, blog, photo | Tags: , , , , , , |

Veleke zgrade
Scritto da verdeanita il novembre 13th, 2012 | 2 comments

Dissero di me, a Belgrado, che quando non ero in ufficio andavo in giro a fotografare edifici enormi (e che ero diventata amica di un sacco di musicisti, ma questa è un’altra storia).

Mesi fa, durante un pomeriggio freddo e piovoso di quella pioggia fine e leggera che sembra come nebbia grassa, ero uscita da sola per una delle mie passeggiate ed ero andata a Prenzlauer Berg a vedere una mostra di un fotografo chiamato Boris Kralj. L’idea di andare a Belgrado stava prendendo forma nella mia testa. Senza motivo, oppure dall’intreccio di piccoli motivi sottili. La mostra parlava di questa città ed era molto piccola. Le foto avevano colori freddi e puliti e cercavano di essere più simmetriche possibili. Raffiguravano persone ed edifici. Gli edifici sembravano enormi e spaventosi. Ma mi piacevano. Pensavo che sarebbe stato facile ritrovarli, ma una volta arrivata a Belgrado, a parte l’imponente Genex Tower che si vede anche dal Kalamegdan, non avevo visto nulla di simile.

Un giorno parlavo con Bojan di non ricordo che cosa e lui mi raccontò un po’ della città e mi disse che la Genex Tower era anche chiamato Western Gate e che c’era anche un Eastern Gate, molto lontano, e che era fatto così – disse facendomi uno schizzo su un foglio. Mentre disegnava capì che era uno degli edifici che avevo visto a quella mostra.
Un sabato mi svegliai stanca, perché avevo dormito pochissimo, feci colazione con un muffin ai lamponi e un doppio espresso al parco dietro casa, il Tašmajdan, e poi cominciai a camminare su Bouleverd Kralja Aleksandra*, avanti, avanti e più avanti. Alla fine capì che quell’edificio enorme era da quelle parti.
L’Eastern Gate non è particolarmente alto. Non più alto di altri grattacieli. Il fatto è che si trova in mezzo a tanti altri edifici bassi e il contrasto è notevole. Ma lo vidi solo da lontano, la prima volta.Una settimana prima della mia partenza decisi di andare a fotografarlo per bene.
Poi, con la macchina fotografica ancora nello zaino, mi ritrovai poi dall’altra parte della città, dall’altra parte del Danubio. Mi ritrovai a pedalare in mezzo a prati sconfinati. Faceva caldissimo ma era uno dei primi giorni d’autunno e i colori si erano già spenti. Riuscì a percepire la distanza da Belgrado guardandomi intorno e trovando i tre grattacieli dell’Eastern Gate all’orizzonte.


Qualche giorno dopo, di notte, mentre andavo nella stessa direzione, mi ritrovai ad aspettare l’autobus in un punto che ancora non sapevo identificare bene, ma che era vicino ad un altro edificio, grande e strano. Era talmente figo che due giorni dopo tornai a fotografarlo con la luce.

Quel giorno non avevo nulla da fare, avevo ancora un paio di centinaia di dinari sulla carta degli autobus, tanti rullini, parti di città che non avevo ancora fotografato e, soprattutto, un’acquisita familiarità con la mappa dei trasporti in cirillico e specialmente con il Bus numero 95.
Su Bouleverd Despota Stefana** saltai sulla prima corsa in direzione Novi Beograd.
Quella parte di Novi Beograd l’avevo vista in alcune foto aeree e mi era parsa davvero impressionante. La cosa buffa, però, è che la prima volta che c’ero stata (un pomeriggio d’estate durante il quale avevo mangiato tantissimo e benissimo) non mi ero resa conto di essere proprio lì.
Su Google Images sembrava spaventosa, dal vivo era semplicemente fighissima, specialmente di notte, quando le finestre si illuminavano di tantissimi colori diversi.
Prima di partire per Belgrado ero andata a passeggiare a Marzahn, perché sentivo il bisogno di vedere distese enormi di plattenbau, forse per conoscere una parte di Berlino che non avevo mai visto, forse per prepararmi agli edifici enormi che mi aspettavano a Belgrado, forse per avere la possibilità di fare un confronto tra due architetture socialiste.
Marzahn l’avevo trovata veramente alienante. Era una domenica o un sabato pomeriggio d’estate e le strade, i giardini e i cortili erano completamente deserti. Non c’erano altri negozi oltre ai Lidl e ai DM. E tutto era pulitissimo, bianco, asettico.
La sensazione che ho avuto a Belgrado è stata totalmente opposta e sui motivi ci sto ancora ragionando.

Oggi, finalmente, ho riavuto indietro queste foto, che il negozio si teneva in ostaggio da esattamente due settimane. Il che vuol dire, oltre al fatto che sono lentissimi, che sono tornata a Berlino da un bel po’. I rullini in realtà erano due, ma quello con le foto dell’Eastern Gate è andato perduto. Il che è molto fastidioso, ma a conti fatti poco importante, perché tanto erano foto di un edificio che difficilmente si sposterà. E che comunque era fatto così:

La gita sul Danubio, invece, non avrei mai potuto rifarla (era stato l’ultimo giorno caldo, ero felice e triste allo stesso tempo, le giornate stavano diventando corte, avevo mangiato un sacco di biscotti plazma ed ero talmente stanca che alla fine non riuscivo a parlare).

Credo che uno dei modi per conoscere veramente le città sia andare anche nelle periferie, sia percorrerle da un estremo all’altro, cercando come di abbracciarle. Però è una cosa talmente stupida e che richiede talmente tanto tempo che ha senso farla solo nelle città dove si resta per un tempo considerevole.

All’aeroporto, mentre aspettavo l’imbarco, me ne stavo a guardare il paesaggio da una finestra enorme. Pensavo che era stato tutto bellissimo e che ero stata proprio brava a fare questa cosa apparentemente senza senso. Sapevo che, come avevo deciso di andarmene da Berlino per tre mesi, avrei anche potuto tornare a Belgrado quando volevo. Sapevo però che il tempo del vivere quella città nella sua quotidianità era finito per lungo tempo e forse per sempre, e a quel punto, io che non piango mai per queste cazzate stucchevoli, mi sono messa a piangere.

Le foto sono tutte mie a parte quella dell’Eastern Gate che è di Boris Kralj. Se guarderete le altre sue foto sembra quasi che l’abbia scopiazzato, se non fosse che nel momento in cui fotografavo questi edifici non ricordavo bene come fossero le sue fotografie, quindi quello che è successo veramente (credo) è che siamo rimasti colpiti dalle stesse cose.
* Questa strada si è chiamata per tanto tempo, almeno fino al ’95, “Bulevar Revolucije” e l’ho scoperto guardando questo film/documentario.
** Questa strada invece si chiamava (e alcuni la chiamano ancora) “Ulica 29. Novembar” che era l’anniversario dell’unificazione della Jugoslavia. Data che ha perso significato da un bel pezzo.

Categories: belgrado, diary, italiano, photo | Tags: , , , , , , , |

Dal tuo mucchio di penne ad un muro che cade.
Scritto da verdeanita il ottobre 16th, 2012 | 3 comments

Di Belgrado mi mancheranno molte cose, tipo il Danubio che scorre a pochi metri dall’ufficio o i piccoli sacchetti di pop corn caldi che vendono ad ogni angolo della strada. Altre cose non mi mancheranno per niente. Tipo lo yogurt liquido e la marmellata dal sapore strano. Tipo l’irreperibilità delle penne biro nere.
Ero partita con tre penne che scrivevano come dicevo io. Una l’avevo persa al Bigz, le altre due dentro la Beograđanka.
Ne avevo comprata un’altra. Ero andata in cartoleria e ci avevo messo un po’ a farmi capire. No, non la voglio con il gel. No, non la voglio blu. Di penne come dicevo io ce n’era una sola. La comprai, ma persi anche quella nel giro di un paio di giorni.
A Belgrado spesso ci sono persone con dei piccoli banchetti sulla strada. Di solito vendono piccole cose al limite del cianfrusaglioso. Smalti, calzini, orecchini, accendini.
Una sera tornavo a casa e, passando attraverso la Terazije, una delle piazze centrali, notai un uomo che aveva il  banchetto poggiato sulla sua sedia a rotelle. Vendeva penne, così mi fermai.
In serbo so dire solo pochissime parole, quindi con quel signore che vendeva penne tentai la comunicazione in inglese.
“Black pen?”
Nel mentre cercai di servirmi da sola, prendendone una in mano.
“Nein, das ist mit Gel!”
Non so se mi stupì di più il fatto che avesse capito subito che cercavo una penna biro o il fatto che mi avesse risposto con una lingua che capivo. Chiesi allora se potevo provarla, quanto costava e che ne prendevo tre. Ero piacevolmente stupita di una conversazione resa così facile da quella che non era la lingua di nessuno dei due, né una tra le più parlate. Aggiungo che ne prendo tre perché di solito le perdo sempre, le penne.
“Sei tedesca?” – mi chiede lui.
“No, sono italiana, però vivo a Berlino.”
“E dove?”
Sorrido, perché è la classica domanda che si fanno i berlinesi tra di loro, chiedere in quale parte della città si abiti.
“A Kreuzberg, ma vicino a Neukölln, ad Hermannplatz”.
A questo punto di solito segue un commento generico su quel quartiere. Quella che mi sento rivolgere, invece, è una domanda sorprendente.
“E dimmi, si ferma adesso la metro ad Alexanderplatz?”
Rimango attonita per qualche secondo. Lì, sulla Terazije, una ragazza italiana e un signore serbo parlano una lingua che non appartiene a nessuno dei due e hanno una conversazione che pare essere vecchia più di vent’anni.
“Sì, sì che si ferma”
Durante la città divisa, invece, la metro numero otto passava sotto Berlino Est senza fermarsi. Proseguiva lenta e al buio, fino a quando non risbucava dall’altra parte. Di nuovo a Berlino Ovest.
Incuriosita gli chiedo ancora qualcosa. Scopro quindi che abitava a Moabit e che si trasferì a Berlino nel 1987, l’anno in cui io sono nata, e che vi rimase per quattro anni. Mi dice anche che lui, quel giorno che il muro cadde, era a Berlino. Che Berlino Est divenne deserta, che i negozi chiusero e che tutti si spostarono ad Ovest, sul Ku’damm. Che là tutti i negozi erano aperti e regalavano la merce. Cioccolata per i bambini e cose da bere per gli adulti, tanto che tutta la strada era completamente ricoperta di lattine di birra.
Rimaniamo a parlare ancora un po’ e alla fine, prima di congedarsi, mi regala una penna. Una bella, mi dice, non come quelle economiche che ho appena comprato.
Me la mette tra le mani e mi dice: “Non perderla questa, è un ricordo di Onkel Kostantin.”
Torno a casa pensando che difficilmente mi capiterà nuovamente di viaggiare così tanto lungo un tragitto così breve.

From your bunch of pens to a wall falling.
I will miss many things of Belgrade, for instance, the Danube, which flows a few meters away from the office or the small bags of hot popcorn that are sold at every street corner. I will not miss at all other things. For instance the liquid yogurt and the weird tasting jam. Or the unavailability of black ballpoint pens.
I left with three pens that wrote the way I wanted. I lost one at Bigz and the other two inside the Beograđanka building.
I bought another one. I went to the stationery shop and it was kind of hard to make me understandable. No, I do not want the gel ones. No, I do not want the blue ones. There was only one pen like the one I was looking for. I bought it, but I lost it within a couple of days.
In Belgrade there are often people with small stands on the streets. Usually, they sell small things, like gimcrack. Nail polish, socks, earrings, lighters.
One evening I was going home and, through the Terazije, one of the central squares, I noticed a man which stand was laying on his wheelchair.
He was selling pens, so I stopped.
I can say only a few words in Serbian, so with the man who was selling pens I tried to communicate in English.
“Black pen?”
At the same time, I tried to look for it by myself and I took one in the hands.
“Nein, das ist mit Gel!”
I don’t know if I was more surprised by the fact that he knew right away I was looking for a ballpoint pen or the fact that he answered me in a language that I could understand. I asked if I could try it, how much it costs and that I wanted to buy three of them. I was pleasantly surprised by a conversation made so easy by a language that didn’t belong to either of us nor is one of the most widely spoken. I said also that I was buying three of them because usually I always lose pens.
“Are you German?” – He asked me.
“No, I’m Italian, but I live in Berlin.”
“Where?”
I smiled, because this is a typical question among Berliners, to ask which part of the city you live.
“In Kreuzberg, but close to Neukölln, in Hermannplatz.”
At this point usually follows a general comment about that neighborhood. What followed, instead, was a surprising question.
“And tell me, does the metro stop at Alexanderplatz now?”
I remain stunned for a few seconds. There, on the Terazije, an Italian girl and a Serbian man are speaking a language that does not belong to either of them and they are having a conversation that seems to be older than twenty years.
“Sure, sure it does”
During the divided city, however, the metro number eight used to pass under East Berlin without stopping. It was used to continue, slowly and in the dark, until the other side. Back to West Berlin.
I was intrigued and I asked him something more. I find out that he lived in Moabit, and moved to Berlin in 1987, the year I was born and remained there for four years. He also told me that the day the wall fell down, he was there in Berlin. That East Berlin became deserted, the shops closed and all the people moved to the west, on the Ku’damm. That on that side all the shops were open and giving away the goods. Chocolate for the kids and things to drink for adults, so that the whole street was completely covered with beer cans.
We talked for a while and at the end, before I left, he gave me a pen. A beautiful one, he said, not an economic one as the ones I just bought.
He put it in my hands and said: “Do not lose this, it is a reminder of Onkel Konstantin.”
I went home thinking that it will hardly happen again to travel so much during such a short walk.

Categories: belgrado, diary, english, italiano, photo | Tags: , , , |

← Older posts

Newer posts →