(questo raccontino era comparso su Plenum, che ora non credo esista più sull’internet. Non credo di averlo mai pubblicato qui)
C’è un appartamento pieno di cose. E un momento dopo l’appartamento è pieno delle stesse cose, ma
improvvisamente è diverso.
Per me, il momento in cui cambiò tutto, fu una mattina di luglio, quando sentii dei rumori provenire dalle
porte del nostro pianerottolo e andai a guardare e vidi la mia coinquilina che piangeva, davanti alle porte
aperte.
Raramente la gente sa cosa si nasconde dentro gli appartamenti dei vicini. Noi invece lo sappiamo o, per
lo meno, lo sapevamo.
Ci sono tre porte e quindi tre appartamenti sul mio pianerottolo e per me quello che accadeva lì era assai
vicino all’idea più idilliaca di vicinato che potessi mai avere.
La porta sulla sinistra è quella dell’appartamento di Frau Elle. Non so quanti anni abbia. So che è
Testimone di Geova, abbastanza sorda e vive da sola. Le mani le tremano tantissimo e spesso ci chiama
per aiutarla ad aprire la porta o per fare altre piccole cose. Eppure, e la cosa per me è un po’ misteriosa,
riesce a cuocere delle torte buonissime e ce ne porta sempre una fetta. Non ha figli, ma ha una donna che
ogni tanto viene a darle una mano. Questa è la figlia della famiglia che abitava prima nella casa dove ora
stiamo noi. Una volta Elisa, la mia coinquilina, l’aveva fatta entrare e lei le aveva raccontato com’era il
nostro appartamento, una volta.
La porta in mezzo è quella dell’appartamento di M. e su di lei ci sarebbero tantissime cose da dire, anche
se lei è rimasta sempre un po’ un mistero.
Suonava il nostro campanello anche tre volte al giorno e la cosa all’inizio mi infastidiva. Però aveva un
sacco di cose per noi. Spesso ci portava gli avanzi del panificio dove lavorava. Oppure, quando c’era il
Ramadam, ci portava il cibo avanzato dalle feste serali. L’ultima volta che andai da lei mi regalò un sacco
di stoffe colorate e dei cartamodelli. La volta prima mi aveva invitato a scegliere tra tre pile di
vecchissimi libri. Così avevo scoperto che in passato aveva lavorato come libraria. Veniva dalla Libia e
con lei parlavo sempre in tedesco, anche se chissà quante lingue sapeva. E chissà quanti lavori aveva
fatto. E chissà che vita aveva avuto.
Faceva lavoretti saltuari e prendeva il sussidio. Recentemente era molto stressata per via dei continui
aumenti dell’affitto e i problemi con l’amministrazione della casa, che sicuramente voleva mandarla via e
affittare il suo bellissimo appartamento al doppio o al triplo del prezzo.
Durante l’ultimo anno, oltre a regalarci continuamente cose, aveva anche svuotato quasi completamente il
suo appartamento. Aveva venduto il letto e la maggior parte dei mobili. Dormiva su un piccolo materasso
sul pavimento. Teneva tutte le sue cose dentro scatole e sacchetti di plastica.
Quella settimana di luglio io stavo un po’ male e Elisa mi aveva detto che anche M. non si sentiva bene e
che era andata in ospedale. Le aveva lasciato le chiavi di casa per dare da bere alle piante e poi sarebbe
andata lei a dare le gocce a Frau Elle, che aveva un problema agli occhi e doveva prenderle ogni giorno
alla stessa ora e da sola non poteva, per via delle mani tremanti. E se potevo pensarci io, uno di quei
giorni.
Avevo pensato che fosse l’ulteriore prova del nostro armonioso vicinato. Non mi aspettavo niente di
brutto, fino al mattino successivo.
Le nostre porte di casa erano entrambe aperte, come spesso accadeva quando lei veniva da noi a chiederci
un po’ di latte o zucchero o viceversa, quando ci faceva entrare da lei per scegliere tra i suoi ultimi tesori.
Ma era tutto diverso, quella mattina.
Siamo entrate in casa sua sapendo che dovevamo frugare tra le sue cose e cercare il contatto di qualcuno,
perché a Berlino era sola, anche se sapevamo di una sorella in Spagna e di un cugino che era venuto a
trovarla l’inverno scorso.
Ci siamo guardate intorno, in quello strano appartamento vuoto eppure pieno di cose. Era strano dover
cercare in giro. La sera prima non avremmo osato, ma ora che lei non c’era più tutto quell’ordine perdeva
senso.
Abbiamo guardato la stanza piena di oggetti: cuscini ricamati, soprammobili dalle forme buffe e
tantissime scatole e sacchetti di plastica pieni di bottoni, vecchie fibbie, perline, gomitoli di lana e altre
cose conservate ordinatamente.
I sacchetti di plastica erano nuovi, non erano ingialliti. Perché M., nonostante la casa piena di oggetti, non
era un’accumulatrice. La sua casa e le sue cose si muovevano. Le stoffe diventavano qualcosa di nuovo.
Se trovava qualcosa di bello ce lo regalava. Era una specie di ricercatrice di cose che poi passavano di
mano in mano.
Qualche giorno dopo arrivò sua sorella, per svuotare l’appartamento. Soprattutto, si stupì di trovarlo così
vuoto, senza i mobili che aveva visto l’ultima volta che era venuta a trovarla.
Forse anche M. si preoccupava di ciò che sarebbe successo alle sue cose, e così le aveva già
meticolosamente vendute, regalate, o chiuse in tante scatole e sacchetti di plastica.
Il concerto dei Repetitor è andato sold out. Finora è stato il mio concerto piú grande.
Era la terza volta che organizzavo un loro concerto a Berlino (il quarto loro concerto in totale, se contiamo quella volta che avevano suonato a Interzona, a Verona). Questa volta l’avevo organizzato con Peter ed era lui a tenere i conti delle prevendite. E anche se Jo mi mandava una mail ogni martedì – o lunedì notte – per dirmi quanti biglietti avevamo venduto, io chiedevo comunque ogni giorno (ogni ora) a Peter: “Sold out?” e lui mi diceva un numero. Ovviamente sarebbe bello che ogni concerto andasse sold out, ma in questo caso la previsione più ottimistica era quella di Andreas, che aveva scommesso su “177 – guest list inclusa”.
Mi ero portata due bottiglie di Valpolicella per celebrare i miei sette anni a Berlino e sapevo che non avrei avuto problemi a farmele aprire, perchè il barista del Berghain viene da Bassano del Grappa e perchè il buttafuori Mike di solito apprezza tutte le schifezze che ci portiamo da mangiare. Ci ha anche detto che forse lo vedremo di meno, nei prossimi mesi. Sta cercando un altro lavoro. Aggiunge che gli piace quando facciamo i concerti noi, ma che quando fai i turni di otto ore al Berghain, quello vero, bé, preferirebbe passare le serate a casa.
In due momenti mi è dispiaciuto che non ci fossi anche tu: quando ho dato a Boris il resto dell’erba che avevi comprato quando eri venuto a trovarmi a Berlino (lui comunque si é lamentato perché era poca) e quando alla fine del concerto è arrivato un tuo amico. L’ho riconosciuto dalle foto sul tuo Instagram, e mi sono presentata. Era arrivato quando il concerto era già finito da un pezzo e Mike non faceva più entrare la gente. Prima ancora che lui potesse dire che era in lista, io avevo già detto a Mike che lui era a posto e che poteva farlo entrare. Quindi forse era un po’ confuso perchè io sembravo conoscerlo ma lui non mi aveva mai vista. “Sono Anita. Tu sei amico dei gemelli, giusto?” “Ah, te sei la ragazza italiana del tour? Piacere!” Poi gli ho detto che in realtá ci eravamo incrociati giá, recentemente: a Belgrado, una sera del febbraio scorso, l’avevo riconosciuto all’inaugurazione di una mostra. Gli dico che galleria e che mostra era e mi dice che sì, era lí. “E perché non ti sei presentata allora?” “Non lo so” gli dico “Probabilmente mi sentivo un po’ timida quella sera.” “Peccato” mi dice “Quella sera poi siamo andati ad una festa, saresti potuta venire!”
(Mi ricordo che la mostra era solo la prima tappa di qualcos’altro che avevo in programma quella sera, quindi anche se mi fossi presentata, anche se mi avesse invitata, non ci sarei probabilmente andata, ma è comunque interessante pensare a come sarebbero potute andare le cose se mi fossi presentata quella sera, e se fossi andata a quella festa).
Il concerto era di venerdí, quindi era pieno di gente che cercava il Berghain (quello vero). Un tizio che a me sembrava ubriaco era stato tra i primi ad entrare. Accortosi dell’errore si era seduto ad un tavolo e aveva cominciato a dare fastidio alla gente. Allora Mike mi aveva detto: “Comunque non è ubriaco: è fatto. Forse è meglio ridargli i soldi e mandarlo via”. Io e Peter eravamo d’accordo. “Non avrei mai capito che era fatto.” “Lo è, e posso dirti anche cosa ha preso. È troppo lucido per aver preso LSD. È troppo di buon umore per aver preso cocaina. Probabilmente è un misto di cristalli e altro.”
Poco meno di sette anni fa, quando ero a Berlino da un paio di mesi, ero anche io finita alla Kantine pensando che fosse il Berghain. Tobi era andato a Friburgo a trovare suo padre e io ero per la prima volta rimasta da sola per il fine settimana. Ero andata ad un WG party e l’avevo lasciato qualche ora dopo, con un gruppo di persone che non avevo mai visto prima e che non avrei rivisto mai più, ed eravamo andati alla Kantine e io non avevo capito che non era il vero Berghain ed ero abbastanza orgogliosa di me per esserci finita in modo così liscio. Avevo capito solo molto tempo dopo che il Berghain, quello vero, era un altro.
Quando abbiamo dichiarato il sold out mi sono versata l’ultimo vino rimasto dentro la seconda bottiglia e sono andata a bermelo al bar, guardando il concerto e pensando a tutte le cose che si sono ingrandite e interconnesse in questi anni e che quella serata era davvero il modo perfetto per celebrare questo anniversario.