Belle basi.
Scritto da verdeanita il settembre 5th, 2008 | 2 comments

Questo post è pieno di errori grammaticali perché sono stanchissima. Abbiate pietà. Domani c’è il quarto (e ultimo) round del Lou Fai Summer Festival.

Quella era la sera delle Breeders, nonché il primo giorno del primo festival della mia vita.
Mi avevano appena sottratto la macchina fotografica e non ne capivo il motivo visto che me l’avevano detto in francese.
Stavo curiosando per il Forte Saint Pere cercando di capire il sistema di somministrazione delle bevande (funzionava come alla Lou Fai: dovevi avere il bicchiere) e stavo pensando ai due concerti che mi ero persa. I Fuck Butttons e i Dodos.
Sul palco aveva appena finito il primo gruppo e stavano sistemando per il secondo. Ancora non facevo caso all’estrema precisione del programma. Se c’era scritto 19.15 voleva infatti dire che il concerto sarebbe cominciato alle 19.15.
Decisi di prendere confidenza con i bagni chimici e quando sentii un po’ di musichetta corsi senza fretta sotto il palco. Infatti non c’era moltissima gente e quella che c’era non si pressava sulle transenne come avviene di solito ai concerti di questa portata. Era sì il primo giorno, ma anche con i concerti più grossi la situazione sarebbe rimasta la stessa.
Notai, guardandomi intorno, che praticamente tutti assistevano al concerto con dei tappi gialli infilati nelle orecchie. Questo è il mistero principale che mi sono portata a casa dalla Route du Rock.
Il secondo mistero, di minore entità, è la comprensione piena del primo gruppo che suonò sul palco del Forte.
La prima impressione fu pessima. Erano in tre. Il bassista era un uomo cupo, coperto fa una felpa grigia col cappuccio che gettava ombra sulle sue espressioni facciali. Il batterista aveva una spirale di metallo appesa sopra il suo strumento e a questa spirale erano appesi numerosi aggeggi metallici. Piatti da portata e cacciaviti.
Lei, la cantante, dava l’impressione di essere incapace e di voler attirare l’attenzione solo grazie al suo spetto fisico. Aveva un vestito mezzo nero e mezzo blu, la faccia mezza bianca, un ciuffo di piume blu elettrico tra i capelli e una piccola e palesemente inutile borsetta di pelle nera.
La prima canzone, se non ricordo male, fu "Playground houstle" e il mio primo e crudele commento fu "Belle basi.".
Il resto del concerto contrastò pienamente con queste prime impressioni.
Mi ritrovai a ballare in modo grezzo come ad ascoltare rapita le canzoni più dolci. Lei non era per niente incapace. Anzi. Era brava a cantare e ad andare avanti indietro per il palco con energia rara e era talmente sicura della sua presenza scenica da causarti qualche scompenso quando ti accorgevi che la chitarra era scomparsa e poi, toh, era ricomparsa, prelevata e riconsegnata da un omino fedele che correva sul palco ad ogni suo cenno. E mi pareva anche brava a suonare. Non ricordo molto del bassista dalla felpa cupa e del batterista avvolto nel metallo. In fondo era lei a reggere tutto il concerto.
Dopo ogni canzone pensavo "Ancora. Ancora. Ancora." Purtroppo, dopo aver visto esaudite le mie invocazioni per un paio di canzoni, il gruppo fu invitato a sgombrare per tener fede ai ferrei orari del programma.
Cercai di reperire qualche informazione dai volantini dispersi nell’area del festival (che erano scritti solo in francese).
I The Dø sembravano tre ma in realtà erano solo due. Lui era francese e lei finlandese. Lui era il bassista dalla felpa cupa.
Trovai il loro nume su molti volantini appesi qua e là tra il campeggio e il Forte. Quando però facevo il loro nome ai francesi in possesso di qualche rudimento di idioma italico loro non si mostravano particolarmente colpiti.
Tornata a casa ne capii il motivo.
Il loro disco si chiama "A Mouthful", è uscito quest’anno ed oggettivamente è un disco molto carino. A me pare addirittura bello perché mi ricorda il concerto e perché è abbastanza vario. Sul loro myspace riportano influenze arcaiche che adoro (tipo Jimi Hendrix, Frank Zappa) e che colgo in modo indefinito.
Il problema di questo disco è che non contiene neanche la metà dell’energia che mi hanno trasmesso dal palco.
Aspetto quindi con ansia un altro loro concertino.
Ho fatto un rapido giro tra i blog musicali che leggo me di loro non parla nessuno.
Sul loro myspace ci sono date in città fredde e francofone, a parte qualche eccezione.
Paiono snobbarci, insomma. Come noi snobbiamo loro, d’altronde.
Riporto quindi l’unica data interessante per qualche lettore di questo blog.
13 dicembre 2008 – XXX – Istanbul (io mi starò consolando con i dolci di S. Lucia)

On My Shoulder – The Dø

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Teorizzazioni inutili sulla diversità delle canzoni
Scritto da verdeanita il giugno 21st, 2008 | Leave a comment

(ovvero: quando cerco di fare post seri divento incredibilmente noiosa)
Ho passato il mio secondo anno a Bologna a segnare accuratamente sull’agenda ogni concerto interessante, decidendo se andarci in base alla disponibilità economica, agli ascolti alla radio, agli articoli sui blog e alla possibilità di Moroso e Coinquiline di accompagnarmi.
Cominciai con il Locomotiv che puzzava ancora di vernice e conclusi nuovamente con il Locomotiv.
La prima sera ero spaesata e indifesa e l’ultima sera ci andai da sola e parlai con svariate persone che col tempo (e coi concerti) avevo bene o male conosciuto (c’è poco da fare: ai concerti siamo sempre gli stessi).
Le Coinquiline erano facili da convincere e avevano una certa varietà di commenti (Giulietti mandò anche una mail a Pelle Carlberg e lui le rispose).
Il Moroso mi seguì più di rado, ma comunque spesso. E al termine di ogni concerto commentò sempre allo stesso modo: "Bravi, ma le canzoni erano tutte uguali".
Credo di non aver mai intavolato una discussione sulla veridicità di questa affermazione, attribuendola ad un ascolto poco attento, o al fatto che se durante i concerti si può precipitare in uno stato di trance in cui, al temine, sembra di aver fatto e sentito la stessa cosa per un ora e passa.
E’ ovvio che un gruppo ha un certo stile, che in un album sviluppa certe idee e certi ascolti ed è impossibile e forse inutile fare un album con canzoni completamente diverse.
Ma col passare dei giorni (e dei concerti) qualche dubbio è venuto anche a me.
Sono così passata ad analizzare (anche se questo termine è troppo pomposo) i dischi che il mio iPod Zoran III mi proponeva (prima di abbandonarmi per la quindicesima volta) anche sotto questo aspetto ("la diversità delle canzoni").
Mi sono venute in mente tante idee disordinate.
Ad esempio, la prima cosa che mi viene in mente è che "adesso c’è internet", quindi se una volta i gruppi dovevano sudarsi un disco e la promozione, ora tutto questo viene fatto molto più velocemente ed economicamente.
Ma questo può anche voler dire che dietro ad un disco, oltre ad esserci meno lavoro, c’è anche meno attenzione e meno riflessione.
Attenzione da parte di chi il disco lo produce, che può preoccuparsi non tanto del potenziale musicale, ma del numero x di amici che il gruppo Tale ha su myspace o dello spazio che ha trovato sui blog.
Riflessione da parte del gruppo, che in vista di un esordio imminete o della velocità del web può essere portato a scrivere canzoni sull’ondata della prima buona idea che riesce a sviluppare.
C’è anche da dire che il paragone che il mio morosetto fa spesso con grosse band del passato probabilmente è poco consono.
Sono sicura che ci abbia già pensato il tempo a scremare tra i gruppi del passato, facendoci pervenire solo le cose più importanti.
Quello che sto seguendo ora è solo un grande e normale flusso di gruppi, concerti, recensioni e dischi di cui riusciremo a cogliere il valore tra cinque o dieci anni, quando di tutti questi dischi ne verranno ricordanti una decina o forse un paio o forse neanche uno.
Io non ce la faccio proprio a valutare di più un gruppo perchè costruisce meglio le canzoni, o perlomeno non la ritengo una cosa così importante, a livello di piacere personale.
Ad esempio ci due dischi che mi sono piaciuti molto di due gruppi che ho anche visto dal vivo, due concerti piacevoli e due dischi ascoltati spesso e due giudizi che sono l’esatto opposto.
Here Comes the Wind degli Envelopes e Hold on now, youngster! dei Los Campesinos!
A livello di album e di canzoni, credo che oggettivamente siano meglio gli Envelopes. C’è più diversità e più struttura, mentre nei Los Campesinos! è sempre la stessa cosa, la stessa idea, in tante declinazioni diverse ma complessivamente il disco è troppo irruente e di minor sostanza.
Però a livello di idea o di attitudine o di suono, preferisco di gran lunga i Los Campesinos!
(Forse tutto ciò è anche da attribuire al fatto che gli Envelopes sono al secondo album e i Los Campesinos! soltanto al primo, ma dovendo ancora ascoltare per bene Demon, non saprei dire…).
Inventandomi una storiella e proiettando tutto in un universo parallelo, se non ci fosse internet secondo me la cose andrebbero così: i Los Campesinos! avrebbero impiegato molto più tempo a pubblicare il loro primo album, ma avrebbero anche avuto modo di farsi venire in mente altre cose e di sperimentarle, aggiungendo molto di più a quell’idea che è il filo conduttore di tutto il disco, pubblicando qualcosa di veramente meraviglioso.
Perchè parlando di idee e di filo conduttore, mi viene sempre da citare gli Strokes e Rooms on Fire, magari un disco piacevole, ma che io ritengo sostanzialmente inutile, e loro non erano neanche alla prima prova.
Ma ascoltateveli che è meglio:
Envelopes – I’d like 2 C U  (via frigopop!)
Los Campesinos! – This Is How You Spell "Hahaha, We Destroyed The Hopes And Dreams Of A Generation Of Faux-Romantics"  (questa dovete inoltre impararla a memoria e urlarla il 4 luglio alla Lou Fai squarciandovi le corde vocali come facciamo io e Michele)

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I tried to be frangetta.
Scritto da verdeanita il marzo 10th, 2008 | 8 comments

Ci provai in tutti i modi. Cercai di spiegare a tutte le mie coinquiline la bellezza di questi sette giovani ragazzi gallesi, così allegri e pure così interessanti.
Feci vedere con orgoglio che le date dei loro concerti erano riportati addirittura su Internazionale.
Ma fui onesta, troppo onesta. E non nascosi che il biglietto aveva un certo costo.
Tentai poi tutte le carte disponibili, compresa quella della pietà, del ricatto, del rimborso.
Ma fallii. Fallii miseramente.
Così, venerdì sera, andai al Covo da sola, cercando di far capire alla coinquilina e ai nostri due ometti che questo gruppo era una cosa bellissima e che tra qualche anno se ne sarebbero accorti. Cercavo di fargli credere di essere particolarmente lungimirante.
In realtà io non sono lungimirante per niente. Prova ne è il fatto che mi trovavo a Bologna, sotto la pioggia, con uno spolverino leggerissimo.
L’unica soluzione era vestirsi a strati. Maglietta rassicurante degli amati Yo La Tengo con sopra maglietta con sopra giacchetta con sopra maglione. Goffa a livelli imbarazzanti.
Inoltre, per proteggermi dalla pioggia e dal freddo, indossai i guanti e coprii il sellino della bicicletta con un sacchetto di plastica.
Ero decisamente poco cool.
Pedalando per vie periferiche, senza musica nelle orecchie e perdendo comunque la strada, cercavo di convincermi della grandiosità della mia azione solitaria.
Quando entrai al Covo c’era ancora poca gente. Pagai l’esoso biglietto con una banconota da 50 euro, il che potrebbe farmi apparire ricchissima, quando in realtà quei 50 euro dovrebbero bastarmi fino alla fine di marzo. Dunque non avevo nemmeno i due euro per il guardaroba. Mi misi a vagare per il Covo reggendo lo spolverino tra le mani, con aria smarrita.
Quando una ragazza mi chiese, con un’espressione molto dubbiosa: "Ma dov’è che suonano?" riacquistai un poco di fiducia e risposi con sicurezza "Dietro quella porta, ma la aprono poco prima del concerto. Ah, ecco, l’hanno aperta!"
Sotto il palco si era già ammassata una quantità notevole di gente.
Mandai un messaggio sereno al mio amico Michele che diceva più o meno: "Sono da sola al concerto dei Los Campesinos! Sono convinta che sia una cosa tremendamente indie. La persona che conosco meglio è un giornalista del Mucchio Selvaggio, con cui, ovviamente, non ho mai parlato. Mi sento sfigata ma con dignità."
Non che sperassi di incontrare chissachi, solo che man mano che procedo con la mia vita bolognese, mi rendo conto di come certi luoghi siano assai lontani dal mondo universitario.
I miei compagni non parlano mai del Locomotiv o del Covo. Sanno della loro esistenza, ma non ci sono mai stati. Credo ignorino la loro collocazione al di fuori dalle mura.
Per questo mi sono auto-convinta che quella gente così cool sia indigena e che io, ancora una volta, stia figurando come un’anima provinciale e  sperduta.
Credevo di essermi data un tono, con la mia pettinatura, ma fui col tempo costretta ad ammettere che andare in bici sia irrimediabilmente dannoso per la mia frangetta e tutto ciò faccia avvicinare il mio aspetto a quello di un upupa.
Questo fu più o meno il mio flusso di pensiero mentre attendevo i Los Campesinos!
I Los Campesinos! si resero visibili in mezzo al pubblico, guidati da un uomo che, con una piccola lampadina, gli fece largo verso il palco. Erano tanti e formarono una lunga fila indiana e grazie a questo io ed altri presenti ci fingemmo abilmente parte integrante del gruppo, cosa che ci permise di giungere proprio sotto il palco senza esagerati sgomitamenti.
Quando il gruppo si palesò sotto le luci realizzai però che mai e poi mai sarei potuta anche lontanamente assomigliare ad una delle tre donzelle che stavano sul palco, che erano tutte assai belle e sensuali.
Il pubblico era festante e i miei vicini avevano intenzioni molto cattive, che nel mio stile di vita corrispondono a tentativi di scatenare un pogo violento (cosa che poi fecero).
Io da un lato avrei voluto avere una compagna di danze, dall’altro, vista la situazione, considerai i miei tentativi di apparire una persona cool miseramente falliti e, dopo una manciata di secondi dall’inizio del concerto, mi misi a ballare senza ritegno.
I Los Campesinos! mi piacciono perché sono tanti e sono dei cazzoni. C’è questo ragazzo che canta con voce urlata e le ragazze che cercano di stargli dietro con le loro voci delicate.
A me piacciono molto le canzoni che ad un certo punto esplodono e diventano qualcosa di diverso e più forte. Generalmente questa esplosione l’ho sempre vista come qualcosa che diventa più introspettivo.
Qui è l’esatto contrario e quando le canzoni esplodono con tastierine e campanellini a me viene tanta voglia di ballare e mi piacerebbe solo che si fosse un po’ di spazio in più, anche se, alla fine, nessuno mi pesta i piedi e sono io a pestarne molti.
Al termine del concerto, sudata e felice, sentivo l’immensa necessità di una birra.
Compresi però che la mia solitaria presenza era ambigua. Avrei potuto sfruttarla a mio favore, lanciare qualche sguardo ammiccante a qualche ragazzo e farmi offrire qualcosa, ma il mio animo non è così vile.
Pensai alla mia coinquilina pigrona, al mio morosetto preoccupato. Pensai alla pioggia che poteva ricominciare da un momento all’altro e sarebbe stata un ostacolo non indifferente.
E tornai a casa, canticchiando le canzoni che avevo appena sentito.

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