Il capodanno solido e la sbronza indie.
Scritto da verdeanita il gennaio 4th, 2009 | 5 comments

Non ho ricordi di così tanta neve su Verona. Anche se so per certo che ne è caduta anche di più.
[Come non ho ricordi dell’Adige particolarmente gonfio, anche se so che spesso l’acqua ha rotto gli argini e, in certi punti della città, arrivava alla mia testa. E come non ho ricordi di ponti distrutti e di acqua fangosa che ci passa sotto.]
Mi ha tolto il fiato, mi ha tolto le parole, tutto questo bianco.
Ho fatto una lunga passeggiata, il primo giorno dell’anno, attraversando questa città imbiancata.
Croc-croc facevano le mie scarpe che calpestavano la neve, che si bagnavano, che facevano entrare acqua che mi ghiacciava i piedi.
Da casa mia a casa di Alex, che abita dall’altra parte della città, poi un tè caldo, dolci turchi, e sono tornata.
All’andata siamo passati davanti al chiostro senza alberi. Era da mesi che non passavo davanti al mio liceo. Più o meno da quando tutti hanno cominciato a partire.
Della notte di capodanno ho ricordi abbastanza precisi, tranne un buco di circa un ora.
Mi dicono, perché io non ricordo praticamente nulla, che non sembravo ubriaca ed ero buffa.
Pare (pare) che io abbia preparato il caffè cantando “Range life” stonando senza preoccupazioni.
Pare (pare) che alla vista del caffè io abbia cominciato a urlare “Leo, è questo che siamo? Leo, ma questo è caffè?”.
Pare (pare) che io abbia fatto fare una foto a Michele con la mia Holga e che lui mi abbia detto “Gira la rotellina” e io abbia risposto “Sì, sì, ora lo faccio.”.
Inoltre la mattina dopo ero un po’ offesa, perché credevo che tutti se ne fossero andati senza salutarmi.
Invece pare (pare) che la gente mi abbia salutato, prima di uscire dalla porta.
Addirittura Michele sostiene che io l’abbia abbracciato chiedendogli “Miqui, have you ever been all messed up?” e lui abbia risposto “Sì, Anita, certo.”
Giuro che di tutto questo ho solo ricordi sfocati.
So però che è stato un capodanno solido, dopo innumerevoli giorni passati a definirmi liquida.
Mi accorgo, se rileggo il comodo file denominato “asfalto” che contiene date e avvenimenti salienti, di aver fatto moltissime cose in questi mesi.
Ho conosciuto tante persone, mi sono semi-ubriacata con gente che conoscevo appena (ma sono sempre state semi-sbronze molto divertenti), ho preso un sacco di treni senza sapere cosa mi aspettava dall’altra parte e senza provare ad immaginarlo, ma prendendomi tutto quello che dall’altra parte c’era, ho passeggiato di sera per città non mie, ho preso per la prima volta la metropolitana da sola, anche se dirlo a 21 anni sembra una cosa un po’ stupida, e ho dormito sulle panchine di una stazione ma anche in case bellissime in mezzo alla campagna.
I legami che ho stretto, o creato, in queste occasioni, erano liquidi nel senso che avevano la forma che volevo, nel senso che non erano duraturi o non chiedevano di esserlo.
Non sapevo se tutto questo fosse una cosa positiva o negativa. Perché io stavo bene, e sto bene, ma mi chiedevo “Sì, ma cosa ne rimane? E soprattutto, appunto perché eri in città non tue, con persone che non conoscevi, eri te?”.
Tutto è diventato solido in due piccoli momenti.
Quando sono salita in mansarda e ho trovato Alex, il mio amico del liceo che ora abita su un’isoletta chiamata Manhattan, che mostrava video di Patsy Cline a Irene, la mia compagna di università, sbronze e dormite in stazione, e quando sono arrivati Margherita e Luca e io ho ritenuto opportuno presentargli gli altri ospiti e le prime persone che mi sono capitare a tiro erano Michele e Irene e ho detto “Ah, ma voi già vi conoscete”. [Alla Casetta, al concerto dei Built to Spill, a Internazionale a Ferrara]
Allora, forse, non ho fatto cose troppo scollegate tra di loro, se poi le persone si ritrovano negli stessi posti.
Allora, forse, non mi comporto diversamente a seconda dei luoghi, se poi i miei amici, che tra di loro non si conoscono, si parlano e non sono strani da guardare, uno di fianco all’altro, a ballare nel mio salotto, o a bere caffè nella cucina di una casa vera.
Oggi avrei avuto la possibilità di rendere tutto ancora più solido. Sarebbero bastati un paio di treni, tra cui quello dell’1.41 Ferrara-Bologna.
Ma non ho voglia di muovermi. Per un po’ voglio stare ferma, qui, proprio dove mi trovo.

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baci sulla fronte e carezze sul ginocchio.
Scritto da verdeanita il settembre 16th, 2008 | 6 comments

In questi giorni sembra che siano tornate le mezze stagioni.
Fa freddo e sono uscita di casa con la mia sciarpa viola, che ho comprato a Istanbul, e nella cassetta delle lettere c’era una busta gialla che veniva proprio da lì.
Settembre è definitivamente il mio mese preferito. Mi succedono sempre cose belle, anche in certi giorni che per il mondo sembrano brutte.
Per certi versi mi sento anche più bellina, a settembre, ma questa è solo una mia percezione mentale (infatti la cura al carciofo si è rivelata fallimentare e sulla mia fronte si sono moltiplicati i brufolini malefici).
Sono tornata a Bologna questo sabato e non sapevo precisamente cosa avrei fatto visto che a casa ero sola soletta e quando si tratta di chiamare qualcuno per uscire divento incredibilmente pigra e preferisco uscire da sola.
Vicino a casa mia c’è un centro sociale in cui non ero mai stata. Ci avevano fatto un paio di concerti degni di nota ma evidentemente non così degni (il più degno era sicuramente quello dei Rosolina Mar a cui non avevo partecipato a causa di un mal di testa di proporzioni gigantesche).
Quella sera presi la mia nuova bici e ci andai.
Avevo ascoltato un disco dei Meganoidi per tutto il pomeriggio, cercardo di calarmi nel mood "quandoeroalginnasioeandavoallemanifestazioneeneicentrisocialiperchèaveronaesistevanoancora".
Ci andai e dissipai buona parte dei miei guadagni in ingresso, una birra media che bevvi con lentezza cercando di darmi un tono, un piatto di spaghetti al pesto e un disco.
Cercai di mandare un messaggio al mio amico Michele, ma ero senza soldi. Più o meno diceva: "Sono da sola all’Anti.Mtv Day. E’ in un centro sociale puzzolente. Faccio tenerezza: ho la spilletta con l’anguria e sto per comprarmi un vinile dei Neutral Milk Hotel. La persona che conosco meglio è il Pernazza degli Ex-Otago. Cool."
Fui costretta a modificare mentalmente l’ultima parte del messaggio quando, poco dopo, incrocia lo sguardo con una persona dall’aspetto familiare.
Ci guardammo negli occhi per una decina di secondi dopodichè io conclusi la sua identificazione esclamando: "Ti sei tagliato i capelli."
Lui era l’omino delle chitarre di Zecchini, storico negozio di strumenti musicali nel centro di Verona, dove io e Alex eravamo soliti passare delle mezz’ore ogni tanto. Ogni tanto Alex prendeva una chitarra a caso dalla parete e improvvisava qualcosa. Mi ricordo un’improvvisazione con una fisarmonica. A caso. [Io adoro le cose a caso.]
L’omino delle chitarre si trovava in quel luogo perchè aveva accompagnato degli amici per suonare.
Infatti il motivo della presenza di tutta quella gente, dei banchetti con gli spaghetti al pesto e le torte vegane e degli ottomila banchetti di dischi di gruppi dai nomi brutti, era un festival di musica cattiva.
In realtà non ascoltai moltissimo della musica perchè i concerti si tenevano al chiuso e dentro le stanze c’era caldo e puzza di sudore. Troppo caldo e troppa puzza di sudore.
Quindi, dopo aver salutato l’omino delle chitarre, mi comprai "In the Aeroplane over the Sea" e tornai a casa per ascoltarmelo, sentendomi un po’ sfigata (come al solito), molto più povera, molto stanca e pensando "Massì, domani sera vado allo Zuni".
Lo Zuni è un circolo Arci nel centro di Ferrara. Ferrara, pur essendo a 47 chilometri da Bologna, è per me quasi comoda da raggiungere.
Mentre viaggiavo su un regionale diretto a Venezia (con la tentazione di andare avanti e andare a Venezia perchè tanto nessuno, o quasi, mi aspettava a Ferrara e nessuno, o quasi, sapeva che ci stavo andando, quindi cambiare destinazione, così, a caso, si poteva fare) scrivevo le mie impressioni sul retro del biglietto del treno. Ascoltavo canzoni che parlavano di treni e stazioni. Pensavo a come era influente la mia percezione sulla effettiva distanza che stavo percorrendo.
Quel giorno avevo pranzato due volte e non avevo ancora cenato. Avevo lo zaino pieno di libri e mi ero fatta disegnare la piantina per lo Zuni sul mio quaderno degli appunti.
Stavo scrivendo sul mio Moleskine l’elenco dei dischi che ho ascoltato quest’anno, l’elenco delle città in cui voglio andare quest’anno e l’elenco delle città in cui ero stata da gennaio fino a quel momento.
Mi ritrovai a scrivere "Ferrara" per quattro volte di fila.
Ci sono andata spesso, pensavo, e tutte le volte che ci sono andata ero in uno stato confuso e ho dormito su pavimenti o su letti inaspettati.
La canzone che stavo ascoltando mi fece riflettere. Il fatto che non apparteniamo più ad un posto non vuol dire che ne apparteniamo ad un altro. Vale anche il contrario? Il fatto che io appartenga a nuovi posti non vuol dire che non appartenga più a quelli da dove provengo. O il fatto che io non appartenga più a nessun posto mi fa in realtà appartenere a tutti i posti.
Pensando a queste cose stavo già passeggiando dalle parti di piazza Castello, per strade che ormai mi apparivano conosciute.
C’era un motivo preciso per cui stavo andando allo Zuni e il fatto che questo "motivo" sia inspiegabilmente scomparso potrebbe farmi arrabbiare ma in realtà non è così.
Fui accolta bene. Come una piccola viaggiatrice che si fa i chilometri in treno senza motivo apparente, che viaggia con la sua cartella delle medie e si porta dietro 12 pennarelli a punta grossa con l’etichetta col suo nome, come se fosse alle elementari.
Fui presentata come quella che organizza concerti e mi ritrovai a regalare spillette.
E bevvi tanta birra, in buona compagnia, realizzando che il mio polso non è così esile come mi piaceva credere.
[Sì, c’era anche un concerto allo Zuni, ma non l’ho ascoltato, ahah.]
In stazione chiesi a un uomo se quel treno che stava per prendere passava anche per Bologna. Lui mi consigliò di ripassare la geografia.
E io risposi che in quel monento avrei dovuto ripassare un po’ tutto e che mi doveva scusare se stavo applicando il mio modo di ragionare ad un treno. A me ogni tanto viene voglia di fare deviazioni improvvise e il mio concetto di vicinanza o lontananza è tutto relativo.
Quel treno poverino, non poteva.

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