Di quella volta che mi trovai per caso da una mostra di Eggleston
Scritto da verdeanita il aprile 28th, 2012 | 1 comment


Questo pomeriggio mi trovavo a Pankow, ad una delle tante manifestazioni gegen Gentrifizierung che fanno sempre a Berlino. Mi sentivo fuori posto, come se stessi dimostrando contro me stessa. Prima della partenza del corteo chiamai il mio amico Giacomo e andai nella sua direzione.
Oggi a Berlino c’era una specie di manifestazione per cui tutta la città era una specie di unico vernissage. Il mio amico Giacomo ne capisce moltissimo di queste cose e quindi si era preparato un certo numero di mostre da vedere. La mostra uno, la mostra due, sono interessanti e rubo dei bicchieri di prosecco, poi ci mettiamo seduti su un marciapiede e critichiamo l’abbigliamento di quasi tutti i presenti. Io ho una tenuta da punk con anfibi rovinati e vestiti solo neri. Ma ero ad una Demo e il dress code lì è più severo che in qualunque galleria d’arte.
Ci spostiamo per recuperare la mia bici e i vernissage non ci lasciano tregua. C’è un’ultima galleria che il mio amico Giacomo aveva addocchiato, quindi giriamo anche per quella piccola strada. Ci troviamo in un edificio molto brutto e di pessima fattura. Le solite pareti di cartapesta made in DDR che nessuno vuole affittare. Ci sono un sacco di gallerie d’arte e un LIDL. Una specie di Meatpacking District poco cool.
Entriamo in una di queste gallerie e la ragazza all’ingresso ci consegna delle cartoline con una foto sopra.
Guardo la foto e penso: “Toh, sembra fatta da Eggleston”. Giro la cartolina e leggo il suo nome per intero e mi scappa un urletto isterico. Mi porto la mano sul petto e alzo lo sguardo incredula.

Tutte le fotografie sulle cui riproduzioni avevo posato lo sguardo innumerevoli volte dai miei diciotto anni sono lì, proprio di fronte a me.

Quando ero alle superiori c’erano diverse attività pomeridiane a cui partecipavo con amore. Una di queste era un corso di fotografia. Un giorno il tipo che ci teneva il corso portò una serie di libri fotografici e quello di William Eggleston mi cambiò quasi la vita.
Forse ho visto di meglio, in seguito. Ma ero piccola ed in quell’età in cui le cose ti sconvolgono davvero. Un po’ come quando si ascoltano i Nirvana. Poi ci si rende conto che c’è di meglio, ma quegli ascolti restano impressi nella testa e tutto il resto viene costruito sopra.
Non so se posso parlare di una cosa simile relativa ad un fotografo. Di mostre ne ho viste tante e ci vado ancora con piacere, ma è un tipo d’arte diverso.
Ad ogni modo non pensavo che mi sarei trovata ad una mostra di Eggleston per caso. Credevo che ci sarei finita con Giulio. E, anzi, proprio qualche settimana fa avevo buttato un occhio su intenet per vedere se c’era qualcosa da qualche parte. Niente.
E allora è successo così, in modo totalmente inaspettato.
Le foto erano appena una manciata e le conoscevo già praticamente tutte. Ma continuavo a pensare “Porca vacca, porca vacca!”.

Le foto di Eggleston hanno dei colori bellissimi. Sono foto di cartelli stradali, di sacchi dell’immondizia, di auto parcheggiate e sono tutte splendide. Riescono a cattuare in modo perfetto gli oggetti che ci passano sotto gli occhi tutti i giorni. Pop.
Raramente Eggleston  fotografa persone ma esistono una manciata di foto di ragazze che a me hanno sempre tolto il fiato.

Dovevo assolutamente chiamare Giulio e così ho chiamato l’unico Giulio che avevo sulla rubrica, che però era un altro Giulio, che faceva il corso di tedesco con me un anno fa e che era comunque contento di sentirmi.

(tutte le foto qui sono ovviamente di William Eggleston)

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Piccoli momenti di prestigio
Scritto da verdeanita il aprile 24th, 2012 | 1 comment

Forse a qualcuno di voi era sfuggito, quindi lo segnalo anche qui. Qualche giorno fa Violetta Bellocchio ha deciso di dedicarmi la sua rubrica su Grazia.it e ha scritto un articolo davvero adorabile su questo blog. Grazie!

Ma non è tutto! Sono anche finita su un settimanale ucraino come parte di un articolo sulla disoccupazione in Italia e la famosa “fuga di cervelli”. L’autrice si chiama Olga Tokariuk e mi ha trovata tramite una catena assurda di contatti, che forse un giorno vi racconterò. Ovviamente non riesco a capire una parola dell’articolo ma sarà sicuramente interessante e ben scritto.

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Bruxelles, marzo 2009
Scritto da verdeanita il aprile 16th, 2012 | Leave a comment

1.
Rue de Verbist, 15 è l’indirizzo di una casa di Bruxelles. Non ricordo bene a che fermata si dovesse scendere, ma sono quasi certa che se mi ritrovassi lì saprei di nuovo arrivarci.
Ero arrivata a Bruxelles con il più classico dei mezzi di trasporto degli anni zero: un volo Ryanair da dieci euro. Ovviamente avevo dovuto pagare un ben più caro pullman dall’aereoporto di Charleroi. Meni era venuta a prendermi alla fermata della metro. Con me avevo solo un trolley arancione che corrispondeva perfettamente alle dimensioni del bagaglio a mano e che avevo fatto pesare sulla bilancia del bagno della mia vicina di pianerottolo, perché in casa non avevo una bilancia.
Era sera ed ero molto stanca. Così passammo la serata a casa.
Rue de Verbist 15 era una casa molto strana. Era alta e strettissima, cinque piani e tre bagni, nove stanze per nove coinquilini e l’unico spazio in comune era la cucina nel seminterrato.
Raramente mi capiterà di trovare un posto così buio eppure così accogliente.
Rientrammo in casa e andammo a prenderci qualcosa da bere nella cucina e incontrammo la ragazza svedese del piano terra. Avrà avuto la mia età e come tutte le svedesi era bellissima, ma mora. Ci raccontò la storia assurda del suo amore per Gustav, un ragazzo del suo paese di qualche anno più grande di lei, di cui era innamorata fin da bambina. L’aveva perso di vista da un po’ e una sera in un club trovò un ragazzo assolutamente identico, anche se non era lui, visto che non l’aveva riconosciuta. Passò la notte con questo ragazzo in una casa che sembrava proprio quella in cui abitava Gustav, senza capire. Fino a qualche anno dopo quando fu lo stesso Gustav a incontrarla ad una festa e a dirle che quello era il suo fratellino, minorenne, che quella sera gli aveva rubato il documento per poter entrare nel club.
2.
Il secondo giorno, dopo una mattinata passata a gironzolare per la città, passai un’ora di angoscia alla stazione centrale, aspettando un amico di mio fratello, minorenne anche lui, a cui avevo firmato un documento con il quale lo prendevo sotto la mia responsabilità. Doveva arrivare da Liegi ma non riuscivo a capire gli avvisi dei treni. “Ormai sarà ad Amsterdam” diceva Meni mentre sorseggiavo una bottiglia di Apfelsaft nel bar della stazione. Alla fine arrivò e andammo a vedere il concerto dei The Dø da una posizione troppo lontana per poter ballare.
Dopo il concerto andammo a bere una birra in un locale dove era in corso una specie di electro party. Era in una cantina con mezza mirrorball attaccata al soffitto. Prendemmo in giro la gente che ballava e inventammo movenze strane, rivolti contro il muro.
3.
La terza sera Meni organizzò una cena con i suoi coinquilini e colleghi di lavoro. La svedese non era potuta venire: usciva per andare da qualche parte (si era comprata due vestiti quel pomeriggio, e l’avevamo aiutata a scegliere quale indossare).
In compenso c’era l’altra ragazza del piano terra (finlandese), la vicina di stanza di Meni (ungherese), e i suoi colleghi, una ragazza portoghese, uno spagnolo e due ragazzi italiani di cui uno, scoprii, abitava a Verona proprio nel mio quartiere.
Ognuno doveva cucinare qualcosa di tipico del proprio paese. Meni aveva preparato uno strudel, io una pasta di cui avevo cotto il condimento in un vok.
Bevemmo moltissimo. La ragazza finlandese beveva decisamente di più di tutti noi messi insieme eppure continuava a rimanere in silenzio. Alla fine della cena, quando ormai ridevamo per ogni cazzata e lei beveva il suo ultimo bicchiere di grappa, cominciò finalmente a parlare. Accidenti se lo reggeva, l’alcol.
4.
La mattina del quarto giorno, mentre scendevo dalla stanza di Meni per andare in cucina, incontrai un ragazzo terrorizzato sulle scale. “Come si fa ad uscire?” mi chiese. Provai ad aprire la porta senza successo. Fortunatamente in quel momento arrivò Meni a risolvere la situazione e il ragazzzo potè fuggire.
“Ma è un tuo coinquilino?” chiesi. “No, non l’ho mai visto” rispose lei, e conservando il dubbio andammo a fare colazione.
In cucina c’era la vicina di stanza di Meni e anche quella che aveva la stanza sopra di lei, una specie di sottotetto. Era danese e aveva l’aspetto un po’ rude e per nulla femminile, ma era stata gentile con me e mi aveva prestato il caricabatterie che avevo dimenticato a Bologna.
Credendo di lamentarsi dei vicini turchi con cui condivideva la parete, Meni cominciò a lamentarsi “C’era qualcuno che faceva sesso stanotte, ma tu Anita non hai sentito niente?” “Proprio niente”, dissi io. “Anche io ho sentito qualcosa… era davvero rumorosi!” disse la vicina di stanza di Meni.
La ragazza danese si alzò dal tavolo e portò il piatto sul lavandino.
Qualcuno, stanco dell’accumulo dei piatti in cucina, aveva appeso un cartello “WASH THE DISHES IMMEDIATELY (or buy your own dishes and you can leave them dirty as long as you want)”.
Adorai l’immediatezza dell’inglese. A Bologna avrei potuto rendere lo stesso concetto in mille modi diversi, accentuando la parte severa, dura o ironica a seconda del linguaggio. Ma credo che mai avrei potuto rendere il tutto in una sola frase semplice ed efficace come quella che stava appesa sopra il lavandino.
Mentre lei lavava il suo piatto io, Meni e la sua compagna di stanza continuavamo a lamentarci dei rumori. Uscendo dalla stanza la ragazza danese disse semplicemente: “Comunque se era verso le tre allora probabilmente ero io”. Uscì e noi tre ci guardammo negli occhi sentendoci immensamente cretine. Ecco che ci faceva quel ragazzo misterioso che cercava di uscire.
Nella cucina di Rue de Verbist 15 c’era anche un quadernino per i messaggi. Cose tipo “Che fine hanno fatto i canovacci della cucina?”, “Stasera invito a cena degli amici, chi vuole aggiungersi è pregato di aggiungere il suo nome alla lista sotto.”, “Qualcuno vuole accompagnarmi al concerto degli A Silver Mt. Zion sabato?”. Era vecchio e ingiallito. Ma divertente da leggere.
Quel giorno io e Meni ce ne andammo a Lille, a trovare un amico comune. Ricordo che dopo aver vagato un po’ per la graziosa cittadina ci ritrovammo in un locale intorno ad un tavolo di legno, io, Meni, Guillaume e un suo amico giapponese. Bevevamo un calice di vino bianco dopo l’altro e parlavamo di Amsterdam e commentavamo il depliant del Tgv. Bruxelles sembrava vicina a tutto. A Londra, a Parigi, ad Amsterdam, a Berlino. Guillaume disse che era bello, che anche se abitavamo tutti così distanti potevamo vederci così spesso.
Mentre tornavamo a casa su una qualche linea della metropolitana incontrai Elisa e i suoi amici spagnoli che avevo conosciuto a Berlino. Sapevo che anche loro erano a Bruxelles, ma non mi aspettavo proprio di incontrarli così, per caso, sulla metropolitana.
5.
Il quinto giorno, quando ancora di Bruxelles non avevo visto praticamente nulla, andai a Brugge con Elisa e i suoi amici spagnoli. Era una città molto piccola, carina, pulita e tutto. Ci limitammo ad una lunga, lunghissima passeggiata per viuzze pittoresche. Parlavo inglese, spagnolo e tedesco.
Tornai a Bruxelles e la mia ultima sera in quella città era già arrivata. Non avevo ancora visto nulla e avevo un grosso mal di testa. Andai a prendere Meni al lavoro e ci sedemmo nel primo bar che trovammo. Ordinammo un bicchiere di prosecco e, grazie all’happy-hour, ce ne arrivarono due a testa. Dopo un po’ ci raggiunse anche David, il bellissimo collega di lavoro spagnolo di Meni. Con lui e quattro bicchieri di prosecco riuscii a sostenere la mia prima vera conversazione in inglese, passando da Hannah Arendt alle storie di una notte.

“Tu sei una delle poche persone che conosco che riesce a perdere gli aerei”
“Sì, ma perdo solo i viaggi di ritorno”


Questo post è stato scritto in diverse fasi, dal marzo 2009 fino ad oggi. Quella a Bruxelles, dopo quella a Berlino e prima di quella a Parigi e a Berlino Parte II fu una delle mie fughe in giro per l’Europa nel corso del 2009. Ero tremendamente inquieta e non riuscivo a stare ferma. Parlavo un inglese molto più imbarazzante di quello che parlo adesso e stavo scoppiando di sensazioni. Ho deciso di pubblicarlo adesso perché boh, forse perché mercoledì torno a vedere i The Dø che non vedo proprio da quel concerto.
La canzone è in realtà una cover dei Luna e me l’aveva spedita via mail la persona che a quel tempo mi sopportava amorevolmente.

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