Va tutto bene
Scritto da verdeanita il febbraio 22nd, 2013 | 2 comments


Una delle cose che mi piaceva di Girls, e che la cara Lena non ha più fatto vedere poi tanto, era lo sfogo sull’internet quando sei un po’ depresso.

Infatti prima ho pensato che potevo scrivere qualche cazzata su Facebook o postare qualche video con un messaggio indecifrabile o scrivere qualcosa di deprimente e rabbioso su Twitter ma poi ho pensato “No, poi lì tutti ti giudicano” e poi ho detto “Ehi, ma sticazzi, io ho il mio pezzo di internet su cui posso fare quello che voglio!”.

E allora ciao, sono il post scollegato e folle e ubriaco che aspettavi da tempo. Eccomi. Forse sono nato nella tua testa oggi pomeriggio quando hai sparato i Pavement a palla dal tuo stereo, che, lasciamelo dire, è proprio una merda, ma è sempre grande e rassicurante anche se si sente male ed è un puzzle di pezzi recuperati da tuo nonno o dal tuo vecchio hi-fi e la puntina del giradischi è vecchia e sicuramente uno che se ne intende potrebbe prenderti a sberle per quello che stai facendo.

Anyway. Forse avevo cominciato a prendere forma anche prima, mentre ero in ufficio e continuavo ad andare in bagno e a mangiare banane e a comprarmi cioccolato alle macchinette.

No, ma torna ai Pavement dai, che se non altro è un cliché più condiviso.
Sì, va bene. Ascoltavo i Pavement e abbracciavo il mio cuscinone colorato e pensavo che probabilmente c’è un un universo parallelo dove io sono rimasta a Belgrado ed eravamo tutti felici, o un altro in cui quell’altro non se ne è tornato in Canada o un altro ancora dove io non sono andata a Berlino o quell’altro in cui boh.

Il punto è che in tutti gli universi reali ma paralleli agli universi paralleli che costurivo abbracciando il mio cuscino, alla fine io ero quella che ascoltava i Pavement abbracciando il cucino e gli altri erano quelli che in qualche modo erano più felici, con una morosa o una casa o un gruppo che fa dei tour pazzeschi.

Poi mi ha chiamato Karin e mi ha detto che stava andando a casa ma che poi andava al concerto e che casa sua non era auf den Weg ma casa mia sì e allora se poteva passare a casa mia. E io le ho detto che non stavo facendo nulla, a parte essere triste, e che poteva passare e che avrei messo una pizza surgelata in forno e avrei stappato una bottiglia di vino costoso che per me non era costoso perché me l’hanno portato i miei.

E così ho fatto e mangiavamo la pizza col Müller Thurgau e parlavamo del nostro essere venticinquenni a Berlino e di quanto sia difficile fare le pseudo groupie della stessa band e del fatto che tra una settiamana entrambe prenderemo un aereo per andare in un posto dove un ragazzo che ci piace ha una nuova ragazza (e potevamo anche parlare delle altre storie identiche e della stessa azienda per cui lavoriamo. Siamo troppo uguali io e lei e un giorno litigheremo per lo stesso ragazzo).

E poi sono anche uscita con lei ma il concerto, che era bellissimo, non riuscivo a godermelo per niente e allora ho detto „Vabbè, vado a casa”. E mentre salivo la scala mobile a Hermannplatz sentivo le tipe di fianco a me che dicevano “Cekala sam” e io pensavo “Capisco tutto, porca merda, perché capisco anche questa lingua del cappero”.
Promettimi, Anita, che come sei rimasta a Berlino, il prossimo semestre continuerai a fare otto ore alla settimana di una lingua apparentemente inutile perché certe cose le fai a caso solo a metà e in realtà sai che le fai per te e basta e va bene così.

(la foto la fece Miqui in un periodo demmerda)

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Chissà come si dice “gurken” in inglese.
Scritto da verdeanita il febbraio 5th, 2013 | Leave a comment

Ieri, sulla strada verso il lavoro, mi sono posta interessanti questioni. Mancavano venti minuti all’inizio del mio turno, ovvero mancavano dieci minuti al momento in cui avrei dovuto accendere il computer perché all’inizio del mio turno devo essere già loggata in tutti i programmini vari. Avevo ottanta centesimi e non sapevo cosa comprarmi da mangiare (e dove soprattutto, perché come facevo a prelevare e procacciarmi del cibo in dieci minuti?). Così cominciai a pensare:
“Ma che ho mangiato la settimana scorsa a pranzo?”
“Ah, sì! Hummus e cose di pasta con la feta dentro. Ma l’hummus mica l’avevo finito. Che l’abbia abbandonato nel frigo dell’ufficio?”
“Ma dopo così tanto farà schifo.”
“Ma no, non l’hai messo in frigo. L’hai messo nella borsa per portarlo a casa, ricordi?”
“Oh, sì! Cavolo, ma a casa non ci è mai arrivato!”
“Oddio, che schifo, è ancora nella borsa?”
“Non può essere ancora nella borsa, me ne sarei accorta, dai”
“Ah, ma l’hai mangiato, non ti ricordi?”
“Ah, me lo ricordo! Ma perché ne ho un ricordo così vago?”
“Forse perché eri sbronza? Dai, con cosa l’hai mangiato?”
“Con un cetriolo!”
“Un cetriolo?”
“Sí, un cetriolo ed ero al bancone di un bar!”
Così sulla via verso al lavoro mi sono tornati in mente dettagli buffi della serata di giovedì, cominciata alla pizzeria di Rosenthaler Platz e finita aspettando l’autobus notturno a Rosenthaler Platz.
Poco prima ero dentro al King Kong Klub, il dj era particolarmente malleabile e io e Karin eravamo riuscite a farci mettere tutte le canzoni della nostra gioventù.
E prima ancora ero al Kim Bar e forse avevo ancora il cetriolo e l’hummus in mano (il cetriolo, giuro, non so da dove fosse spuntato, fatto sta che con l’hummus ci stava divinamente) quando era partita “Kicked in the sun” e io avevo scritto a Michele “We’re special in other ways”.
Era già tardissimo e non sono sicura che l’abbia ricevuto, più che altro non sono neanche sicura di essere riuscita a spedirlo.

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