L’inverno che non passa
Scritto da verdeanita il aprile 25th, 2013 | 1 comment

Neverending winter from verdeanita on 8tracks Radio.

Non faccio mai mixtape ma su Spotify avevo questa manciata di canzoni e volevo congelare il momento.
Sono le canzoni che ho collegato a questo inverno troppo lungo.
La foto l’ha fatta Moritz a Zurigo con un rullino da 1600 ISO che ho comprato a Belgrado e che gli ho regalato quando è venuto a trovarmi a Verona.

Shave My Pussy – Chad VanGaalen
Zurich is stained – Pavement
Nevica – Gazebo Penguins
Summer Storm – Girls in Hawaii
Samuele’s Magic House – The Ian Fays
Here to fall – Yo La Tengo
Chemicals – The Notwist
Everything is Soft – Fake P
Insomnia – Electric President
Silent April Left us Without a Kiss – My Awesome Mixtape
Smells like content – The Books

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Va tutto bene
Scritto da verdeanita il febbraio 22nd, 2013 | 2 comments


Una delle cose che mi piaceva di Girls, e che la cara Lena non ha più fatto vedere poi tanto, era lo sfogo sull’internet quando sei un po’ depresso.

Infatti prima ho pensato che potevo scrivere qualche cazzata su Facebook o postare qualche video con un messaggio indecifrabile o scrivere qualcosa di deprimente e rabbioso su Twitter ma poi ho pensato “No, poi lì tutti ti giudicano” e poi ho detto “Ehi, ma sticazzi, io ho il mio pezzo di internet su cui posso fare quello che voglio!”.

E allora ciao, sono il post scollegato e folle e ubriaco che aspettavi da tempo. Eccomi. Forse sono nato nella tua testa oggi pomeriggio quando hai sparato i Pavement a palla dal tuo stereo, che, lasciamelo dire, è proprio una merda, ma è sempre grande e rassicurante anche se si sente male ed è un puzzle di pezzi recuperati da tuo nonno o dal tuo vecchio hi-fi e la puntina del giradischi è vecchia e sicuramente uno che se ne intende potrebbe prenderti a sberle per quello che stai facendo.

Anyway. Forse avevo cominciato a prendere forma anche prima, mentre ero in ufficio e continuavo ad andare in bagno e a mangiare banane e a comprarmi cioccolato alle macchinette.

No, ma torna ai Pavement dai, che se non altro è un cliché più condiviso.
Sì, va bene. Ascoltavo i Pavement e abbracciavo il mio cuscinone colorato e pensavo che probabilmente c’è un un universo parallelo dove io sono rimasta a Belgrado ed eravamo tutti felici, o un altro in cui quell’altro non se ne è tornato in Canada o un altro ancora dove io non sono andata a Berlino o quell’altro in cui boh.

Il punto è che in tutti gli universi reali ma paralleli agli universi paralleli che costurivo abbracciando il mio cuscino, alla fine io ero quella che ascoltava i Pavement abbracciando il cucino e gli altri erano quelli che in qualche modo erano più felici, con una morosa o una casa o un gruppo che fa dei tour pazzeschi.

Poi mi ha chiamato Karin e mi ha detto che stava andando a casa ma che poi andava al concerto e che casa sua non era auf den Weg ma casa mia sì e allora se poteva passare a casa mia. E io le ho detto che non stavo facendo nulla, a parte essere triste, e che poteva passare e che avrei messo una pizza surgelata in forno e avrei stappato una bottiglia di vino costoso che per me non era costoso perché me l’hanno portato i miei.

E così ho fatto e mangiavamo la pizza col Müller Thurgau e parlavamo del nostro essere venticinquenni a Berlino e di quanto sia difficile fare le pseudo groupie della stessa band e del fatto che tra una settiamana entrambe prenderemo un aereo per andare in un posto dove un ragazzo che ci piace ha una nuova ragazza (e potevamo anche parlare delle altre storie identiche e della stessa azienda per cui lavoriamo. Siamo troppo uguali io e lei e un giorno litigheremo per lo stesso ragazzo).

E poi sono anche uscita con lei ma il concerto, che era bellissimo, non riuscivo a godermelo per niente e allora ho detto „Vabbè, vado a casa”. E mentre salivo la scala mobile a Hermannplatz sentivo le tipe di fianco a me che dicevano “Cekala sam” e io pensavo “Capisco tutto, porca merda, perché capisco anche questa lingua del cappero”.
Promettimi, Anita, che come sei rimasta a Berlino, il prossimo semestre continuerai a fare otto ore alla settimana di una lingua apparentemente inutile perché certe cose le fai a caso solo a metà e in realtà sai che le fai per te e basta e va bene così.

(la foto la fece Miqui in un periodo demmerda)

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Il capodanno solido e la sbronza indie.
Scritto da verdeanita il gennaio 4th, 2009 | 5 comments

Non ho ricordi di così tanta neve su Verona. Anche se so per certo che ne è caduta anche di più.
[Come non ho ricordi dell’Adige particolarmente gonfio, anche se so che spesso l’acqua ha rotto gli argini e, in certi punti della città, arrivava alla mia testa. E come non ho ricordi di ponti distrutti e di acqua fangosa che ci passa sotto.]
Mi ha tolto il fiato, mi ha tolto le parole, tutto questo bianco.
Ho fatto una lunga passeggiata, il primo giorno dell’anno, attraversando questa città imbiancata.
Croc-croc facevano le mie scarpe che calpestavano la neve, che si bagnavano, che facevano entrare acqua che mi ghiacciava i piedi.
Da casa mia a casa di Alex, che abita dall’altra parte della città, poi un tè caldo, dolci turchi, e sono tornata.
All’andata siamo passati davanti al chiostro senza alberi. Era da mesi che non passavo davanti al mio liceo. Più o meno da quando tutti hanno cominciato a partire.
Della notte di capodanno ho ricordi abbastanza precisi, tranne un buco di circa un ora.
Mi dicono, perché io non ricordo praticamente nulla, che non sembravo ubriaca ed ero buffa.
Pare (pare) che io abbia preparato il caffè cantando “Range life” stonando senza preoccupazioni.
Pare (pare) che alla vista del caffè io abbia cominciato a urlare “Leo, è questo che siamo? Leo, ma questo è caffè?”.
Pare (pare) che io abbia fatto fare una foto a Michele con la mia Holga e che lui mi abbia detto “Gira la rotellina” e io abbia risposto “Sì, sì, ora lo faccio.”.
Inoltre la mattina dopo ero un po’ offesa, perché credevo che tutti se ne fossero andati senza salutarmi.
Invece pare (pare) che la gente mi abbia salutato, prima di uscire dalla porta.
Addirittura Michele sostiene che io l’abbia abbracciato chiedendogli “Miqui, have you ever been all messed up?” e lui abbia risposto “Sì, Anita, certo.”
Giuro che di tutto questo ho solo ricordi sfocati.
So però che è stato un capodanno solido, dopo innumerevoli giorni passati a definirmi liquida.
Mi accorgo, se rileggo il comodo file denominato “asfalto” che contiene date e avvenimenti salienti, di aver fatto moltissime cose in questi mesi.
Ho conosciuto tante persone, mi sono semi-ubriacata con gente che conoscevo appena (ma sono sempre state semi-sbronze molto divertenti), ho preso un sacco di treni senza sapere cosa mi aspettava dall’altra parte e senza provare ad immaginarlo, ma prendendomi tutto quello che dall’altra parte c’era, ho passeggiato di sera per città non mie, ho preso per la prima volta la metropolitana da sola, anche se dirlo a 21 anni sembra una cosa un po’ stupida, e ho dormito sulle panchine di una stazione ma anche in case bellissime in mezzo alla campagna.
I legami che ho stretto, o creato, in queste occasioni, erano liquidi nel senso che avevano la forma che volevo, nel senso che non erano duraturi o non chiedevano di esserlo.
Non sapevo se tutto questo fosse una cosa positiva o negativa. Perché io stavo bene, e sto bene, ma mi chiedevo “Sì, ma cosa ne rimane? E soprattutto, appunto perché eri in città non tue, con persone che non conoscevi, eri te?”.
Tutto è diventato solido in due piccoli momenti.
Quando sono salita in mansarda e ho trovato Alex, il mio amico del liceo che ora abita su un’isoletta chiamata Manhattan, che mostrava video di Patsy Cline a Irene, la mia compagna di università, sbronze e dormite in stazione, e quando sono arrivati Margherita e Luca e io ho ritenuto opportuno presentargli gli altri ospiti e le prime persone che mi sono capitare a tiro erano Michele e Irene e ho detto “Ah, ma voi già vi conoscete”. [Alla Casetta, al concerto dei Built to Spill, a Internazionale a Ferrara]
Allora, forse, non ho fatto cose troppo scollegate tra di loro, se poi le persone si ritrovano negli stessi posti.
Allora, forse, non mi comporto diversamente a seconda dei luoghi, se poi i miei amici, che tra di loro non si conoscono, si parlano e non sono strani da guardare, uno di fianco all’altro, a ballare nel mio salotto, o a bere caffè nella cucina di una casa vera.
Oggi avrei avuto la possibilità di rendere tutto ancora più solido. Sarebbero bastati un paio di treni, tra cui quello dell’1.41 Ferrara-Bologna.
Ma non ho voglia di muovermi. Per un po’ voglio stare ferma, qui, proprio dove mi trovo.

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