Dieci dischi che mi ricorderanno il 2015
Scritto da verdeanita il dicembre 29th, 2015 | 2 comments

Per il 2015 mi ero comprata una bellissima agenda MUJI con due pagine per mese. Considerando che non ho impeghi specifici in determinati giorni, ma piuttosto to-do-list infinite e ramificate che posso depennare un po’ quando mi pare, due pagine sono perfette per avere un Überblick sulle cose da fare, ma soprattutto per tener conto delle cose fatte. Questo per dire che in questo 2015 ho tenuto conto di tutto quello che facevo in modo maniacale. So, ad esempio, che sono stata a teatro solo una volta e 10 volte al cinema (due volte a vedere lo stesso film, una volta a vedere due film uno dopo l’altro). So anche che ho letto 14 libri che non avevano nulla a che fare con l’università (anche se spero di finirne un altro paio di già cominciati prima della fine dell’anno) che ovviamente è pochissimo, ma è molto di più rispetto agli anni passati e, soprattutto, mi permette di regolarmi per migliorare il prossimo anno.

In compenso, sono stata a 91 concerti (tour compresi) e ho ascoltato, con quella che ritengo essere la giusta attenzione, 47 dischi. E a tutti questi dischi ho voluto mediamente abbastanza bene, il che rende ovviamente difficile sceglierne solo 10, ma lo faccio lo stesso perché è divertente e perché fossero queste le difficoltà della vita. Cominciamo!

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1. Viet Cong – “Viet Cong”
E non solo perché è un bell’album, ma anche (e forse soprattutto) perché è quello che mia ha accompagnata di più durante questo 2015. Uno dei primi concerti che ho visto a Berlino quando sono ritornata (al West Germany: perfetto per loro). Il disco più ascoltato in tour con i VVhile (e anche quello più sentito nei locali che ci hanno ospitati) e anche un concerto che ha riempito un day off. Però, sì, hanno un nome cretino.

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2. Car Seat Headrest – “Teens of Style”
Posso mettere un album che ho scoperto appena un paio di settimane fa nella classifica di fine anno? E posso, soprattutto, metterlo così in alto? Considerando che nell’ultima settimana praticamente non ho ascoltato altro e che una cotta musicale così non mi capitava da… vabbè, non mi capitava forse dall’anno scorso, ma non è questo il punto. Oltre ad essere un bellissimo album lo-fi, un po’ cupo alla Joy Division, che per il resto ricorda Guided by Voice, Pavement e simili, c’è anche una bellissima storia dietro (mille dischi pubblicati su Bandcamp per poi approdare alla Matador), che mi fa ben sperare e mi sprona a cercare gemme nascoste e meravigliose nei meandri dell’internet.
Non vedo l’ora di vederlo dal vivo a Berlino a febbraio, portato dai coinquilini d’ufficio Puschen, e spero anche di avere la giornata libera per fargli la pizza. Will Toledo, sappi che hai trovato la tua nuova stalker.

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3. Tocotronic – “Das rote Album”
Da qualche parte sull’internet c’è una mia recensione che dice, parlando di musica tedesca “A me questa lingua suona ancora stranissima, quando appoggiata ad una qualche melodia”.
Ebbene, quest’anno ho superato anche questa barriera musico-linguistica, e l’emblema di questo superamento è l’ultimo album dei Tocotronic, che ho ascoltato tantissimo e su cui canta anche la mia coinquilina. #namedroppinginutile
Ne ho parlato un pochino nel post “Limonare fino ad essere stanchi”.

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4. Aloa Input – “Mars etc.”
Una piacevole conferma da quando li avevo scoperti una paio di anni fa, divenendo la loro più affezionata stalker (del tipo che sono andata al loro concerto di Dresda anche se li avevo visti il giorno prima a Berlino e quando ero in tour con i VVhile e suonavano a Mainz lo stesso giorno che c’ero anche io, ho fatto una comparsata al loro concerto per le prime tre canzoni).
Quest’album è ancora più variopinto del primo, le varie influenze, tra glitch, roba a la Anticon e psichedelia, sono ancora più definite e meglio amalgamate del precedente lavoro. E niente, gli voglio molto bene.

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5. Fenster – “Emocean”
Avendo partecipato alle riprese di Emocean e avendo percepito la follia che vi si celava dietro, ero al contempo curiosa e terrorizzata per l’uscita dell’album/film. L’abbiamo visto al Marie Antoniette e la prima reazione è stata “ODDIO MA È TOTALMENTE ASSURDO”. Lo è. Sta di fatto che quando l’album è uscito l’ho ascoltato di seguito per giorni interi. I Fenster hanno fatto un percorso stupendo nei loro tre album, partendo da un pop molto minimale che è andato via via arricchendosi, fino a questo disco onirico, psichedelico, e inaspettato come mai ti aspetteresti (aha) da un disco strumentale.

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6. Any Other – “Silently. Quietly. Going Away.”
Mi capita raramente di comprare un album ad un concerto, però la prima volta che ho visto suonare Adele, quando suonava ancora con Cecilia e le Lovecats facevano ancora le cover, ho comprato subito il loro EP, perché avevo davvero del (molto) buono in loro. Oltre a essere uno dei pochi album italiani in inglese con dei testi più che sensati (litote per dire che i testi sono bellissimi, ma è la barra che in Italia è settata su un livello bassissimo), è anche un disco che rimane onesto e vero nonostante chiarissime influenze.
Sono ovviamente orgogliosissima di aver organizzato le loro prime date europee che trovate qui.

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7. Gun Outfit – “Dream All Over”
Quest’anno sono usciti 22 album di artisti di Paper and Iron e penso di averli, seppur distrattamente, ascoltati tutti. Poi un giorno ho chiesto a Nikita di farmi ascoltare quel nuovo gruppo che aveva appena preso e me ne sono completamente innamorata. Assomigliano un po’ agli Yo La Tengo (quindi ovvio che sono impazzita) ma anche tantissimo ai Galaxie 500.
Anche loro non vedo l’ora di vederli a febbraio (che già si preannuncia un mese intenso). Anche per loro spero di trovare il tempo di fare la pizza.

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8. Hop Along – “Painted Shut”
A novembre sono andata a vedere gli Hop Along al Marie Antoniette. Era la settimana del mio compleanno, nella quale sono andata – praticamente – ad un concerto al giorno (Lower Dens – Kurt Vile – Girl Names – Hop Along (appunto) e Built to Spill, che fatica – fossero queste le fatiche della vita). Ero però convinta che quel giorno sarei crollata a letto e avrei saltato il concerto, tanto più che era l’unico per cui non avevo il biglietto, quindi non mi sono messa d’accordo con amici vari per 1. non paccare dalla stanchezza 2. perché avevo invitato un tipo che mi piaceva un pochino 3. perché comunque era da tanto che non andavo ad un concerto da sola 4. perché comunque tutti quelli a cui l’avevo detto mi avevano risposto confusi “I chi?”
Per qualche oscuro mistero delle distribuzioni e degli uffici stampa, infatti, gli Hop Along a Berlino non godono dello stesso amore di cui godono altrove.
Al concerto c’erano abbastanza persone da non far sembrare il locale vuoto, ma ne avrebbero meritate molte di più. E poi al concerto ho incontrato (per caso) il mio amico Jo, che si è rivelato provvidenziale perché 1. non ci piaceva il gruppo spalla e ne abbiamo approfittato per andare al Burger King a mangiarci delle patatine 2. perché alla fine il concerto era stato talmente bello e io ero talmente povera che mi sono fatta prestare da lui i soldi per comprare il disco.

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9. Courtney Barnett – “Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit”
Perché non sono andata a vedere Courtney Barnett la prima volta che è venuta a Berlino? Perché non sono andata a vederla neanche la seconda volta che è tornata? Forse perché scettica della sua esplosione mediatica non avevo ancora degnato il disco di un degno ascolto? Forse sì. Me ne sono pentita? Sì, molto.

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10. Dan Deacon – “Gliss Riffer”
A Dan Deacon ho effettivamente fatto la pizza. Poi mi sono anche fatta autografare un poster per Michele e me lo sono dimenticata a Berlino anche questa volta.
Oltre ad un concerto stupendo (uno dei primi che ho visto tornata a Berlino), ha anche fatto un bellissimo disco anti-ansia.

Ah, è stato difficilissimo ma non vedo l’ora di rifarlo.

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Vorrei che Dan Deacon fosse il mio insegnante di yoga
Scritto da verdeanita il febbraio 27th, 2015 | 2 comments

La prima volta che ho visto Dan Deacon ero alla Route du Rock, dove fa freddo anche ad agosto. Suonava su un palco piccolino praticamente in mezzo alla folla. Io ero riuscita ad avvicinarmi al palco e avevo tentato di fare un video per Michele perché lui non c’era e nel video poi non si vedeva niente e si sentiva ancora peggio. Dopo le prime due canzoni, e aver rischiato di morire schiacciata un paio di volte, mi ero seduta sopra una cassa, pensando di essere al sicuro e invece poco dopo mi era stata lanciata addosso una persona. Però, nonostante la pericolosità della cosa, mi ero divertita tantissimo.

Qualche mese fa i miei vicini di ufficio Puschen avevano annunciato un concerto di Dan Deacon allo Schwuz e non era stato solo Dan Deacon a farmi urlare di gioia, ma anche il fatto che si svolgesse proprio allo Schwuz che è uno storico locale gay a Berlino dove ogni tanto fanno concerti bellissimi, che è grande e labirintico, che sprizza gioia da tutti i pori e che ha una mirrorball gigantesca.

Volevo andarci, ma in quel momento non ero neanche sicura se sarei stata a Berlino quel giorno. Invece poi sono tornata a Berlino, ho cominciato a lavorare nel mio vecchio ufficio bellissimo, e alla fine quella sera lavoravo pure in cassa e avevo fatto quattro pizze per il catering (due margherite, una ai funghi, una alle olive) ed ero molto felice anche perché avevo potuto lasciare tutti i miei averi in camerino e non avevo borsette, giacche o cose di cui preoccuparmi. Però non suonava in mezzo al pubblico e la cosa mi dispiaceva.

L’ingresso era lontano dalla sala del concerto e da lì non si sentiva nulla. Non mi ero neanche accorta che il gruppo spalla aveva cominciato a suonare (e aveva anche finito). Fortunatamente però sono riuscita a perdermi solo i primissimi secondo del concerto, anche se sicuramente mi sono persa qualcosa di importante, perché tutti stavano per mettere una mano sulla testa del compagno per fare una qualche specie di rito che avrebbe poi avuto qualche effetto che solo noi avremmo notato. Poi ci ha invitato a puntare il dito contro la gigantesca mirrorball e ha detto qualcosa sull’ansia e sul fatto che dovevamo distruggerla proprio come stava accadendo alla luce che si frantumava sugli specchi in mille puntini bellissimi. E poi ci ha fatto ballare in modo cretino (e liberatorio). Era un misto tra un concerto e una lezione di yoga, però con una musica più bella. E il fatto che non suonasse in mezzo al pubblico non mi è mancato più di tanto.

Alla fine del concerto sono andata a chiedergli se la pizza gli era piaciuta e se poteva farmi un autografo sul poster per il mio amico Michele che anche quella sera non c’era (io quando vado ai concerti che vorrei vedere con determinati amici mi faccio firmare il poster per loro e non so se sia un comportamento carino o da stronzi) e l’ho sentito dire qualcosa alla persona che gli stava parlando prima di me, sul fatto che non era più stanco, che era stanco prima del concerto ma solo perché era stressato e che poi quando è sul palco lo stress e la stanchezza spariscono.

Due giorni dopo ho letto questa adorabile intervista in cui parla, appunto, di stress e ansia e dell’importanza di imparare a rilassarsi, che smettere di controllare la posta per controllare Instagram non è esattamente il modo per farlo e che bisogna imparare ad annoiarsi e altre cose che devo imparare e che si adattano molto bene a quello che sto cercando di fare ora, che è il contrario di quello che facevo l’anno scorso, quando non avevo tempo di annoiarmi e non è che fosse una cosa bellissima.

E poi l’altro ieri è uscito questo bellissimo video e le cose che ha fatto fare alla gente in quell’ufficio sono più o meno quelle che ci ha fatto fare allo Schwuz, a parte distruggere le nostre ansie sulla mirrorball perché NPR sarà anche un bellissimo posto ma la mirrorball non ce l’hanno.

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