Finale Emilia
Scritto da verdeanita il maggio 24th, 2012 | Leave a comment

Una delle piccole conquiste che mi stanno portando alla vita adulta era stata, ormai molti anni fa, il fatto di poter dormire fuori casa senza dover avvisare la mia mamma. Quando abitavo a Bologna capitava ad esempio di fermarsi a dormire dal moroso oppure di essere troppo stanca dopo una cena a casa di un’amica e di occuparne il divano. Qualche volta capitava anche di non pianificare e di trovarsi a dormire a casa di amici un po’ più lontano, a Ferrara, a Pianoro, da qualche parte vicino a Bologna.
E il più delle volte la mia mamma, con uno strano fiuto di mamma, riusciva a capire che non avevo dormito a casa a Bologna e mi chiamava. Successe la sera che una festa di fine semestre mi trattenne a Pianoro, ad esempio.
E successe una volta che mi svegliai in un posto in mezzo al nulla. “Dove sei?” mi chiese lei al telefono. “Non ne ho la più pallida idea”, risposi io.
Quello che vedevo fuori dalla finestra era il solito paesaggio che vedevo dal treno quando andavo da Verona a Bologna e viceversa, senza poi il rassicurante percorso dei binari.
Chiesi al mio ospite dov’ero e lui rispose “Finale Emilia”. “Sono a Finale Emilia”, dissi a mia mamma.

Oggi ero al lavoro. Lavoro che, come ho raccontato a qualcuno, è molto ripetitivo. Si tratta di avvisare certi clienti che certi pacchi sono in giacenza presso un certo corriere. Le mail sono molto simili, spesso l’indirizzo è sbagliato o il destinatario era assente. Oggi me ne è capitata una po’ diversa, che diceva “non consegnabile a causa di forza maggiore” e veniva proprio da Finale Emilia.

Del terremoto avevo letto sui giornali, avevo visto le foto su Facebook, avevo letto i post (questo specialmente) e i twit degli amici. Oggi ci sono andata a sbattere addosso da lontano, dal mio ufficio di Berlino, e in modo diverso. Cosa dovevo fare? Dovevo mandare una mail al cliente? L’avrebbe letta? Gli sarebbe importato qualcosa del suo pacco?
C’è stato un momento di vuoto e di incertezza nella mia testa, che non è neanche lontanamente paragonabile al vuoto e all’incertezza che probabilmente stanno provando le persone direttamente coinvolte. E boh, il pensiero di quello stupido pacco non consegnabile mi ha accompagnata fino ad adesso.

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Bruxelles, marzo 2009
Scritto da verdeanita il aprile 16th, 2012 | Leave a comment

1.
Rue de Verbist, 15 è l’indirizzo di una casa di Bruxelles. Non ricordo bene a che fermata si dovesse scendere, ma sono quasi certa che se mi ritrovassi lì saprei di nuovo arrivarci.
Ero arrivata a Bruxelles con il più classico dei mezzi di trasporto degli anni zero: un volo Ryanair da dieci euro. Ovviamente avevo dovuto pagare un ben più caro pullman dall’aereoporto di Charleroi. Meni era venuta a prendermi alla fermata della metro. Con me avevo solo un trolley arancione che corrispondeva perfettamente alle dimensioni del bagaglio a mano e che avevo fatto pesare sulla bilancia del bagno della mia vicina di pianerottolo, perché in casa non avevo una bilancia.
Era sera ed ero molto stanca. Così passammo la serata a casa.
Rue de Verbist 15 era una casa molto strana. Era alta e strettissima, cinque piani e tre bagni, nove stanze per nove coinquilini e l’unico spazio in comune era la cucina nel seminterrato.
Raramente mi capiterà di trovare un posto così buio eppure così accogliente.
Rientrammo in casa e andammo a prenderci qualcosa da bere nella cucina e incontrammo la ragazza svedese del piano terra. Avrà avuto la mia età e come tutte le svedesi era bellissima, ma mora. Ci raccontò la storia assurda del suo amore per Gustav, un ragazzo del suo paese di qualche anno più grande di lei, di cui era innamorata fin da bambina. L’aveva perso di vista da un po’ e una sera in un club trovò un ragazzo assolutamente identico, anche se non era lui, visto che non l’aveva riconosciuta. Passò la notte con questo ragazzo in una casa che sembrava proprio quella in cui abitava Gustav, senza capire. Fino a qualche anno dopo quando fu lo stesso Gustav a incontrarla ad una festa e a dirle che quello era il suo fratellino, minorenne, che quella sera gli aveva rubato il documento per poter entrare nel club.
2.
Il secondo giorno, dopo una mattinata passata a gironzolare per la città, passai un’ora di angoscia alla stazione centrale, aspettando un amico di mio fratello, minorenne anche lui, a cui avevo firmato un documento con il quale lo prendevo sotto la mia responsabilità. Doveva arrivare da Liegi ma non riuscivo a capire gli avvisi dei treni. “Ormai sarà ad Amsterdam” diceva Meni mentre sorseggiavo una bottiglia di Apfelsaft nel bar della stazione. Alla fine arrivò e andammo a vedere il concerto dei The Dø da una posizione troppo lontana per poter ballare.
Dopo il concerto andammo a bere una birra in un locale dove era in corso una specie di electro party. Era in una cantina con mezza mirrorball attaccata al soffitto. Prendemmo in giro la gente che ballava e inventammo movenze strane, rivolti contro il muro.
3.
La terza sera Meni organizzò una cena con i suoi coinquilini e colleghi di lavoro. La svedese non era potuta venire: usciva per andare da qualche parte (si era comprata due vestiti quel pomeriggio, e l’avevamo aiutata a scegliere quale indossare).
In compenso c’era l’altra ragazza del piano terra (finlandese), la vicina di stanza di Meni (ungherese), e i suoi colleghi, una ragazza portoghese, uno spagnolo e due ragazzi italiani di cui uno, scoprii, abitava a Verona proprio nel mio quartiere.
Ognuno doveva cucinare qualcosa di tipico del proprio paese. Meni aveva preparato uno strudel, io una pasta di cui avevo cotto il condimento in un vok.
Bevemmo moltissimo. La ragazza finlandese beveva decisamente di più di tutti noi messi insieme eppure continuava a rimanere in silenzio. Alla fine della cena, quando ormai ridevamo per ogni cazzata e lei beveva il suo ultimo bicchiere di grappa, cominciò finalmente a parlare. Accidenti se lo reggeva, l’alcol.
4.
La mattina del quarto giorno, mentre scendevo dalla stanza di Meni per andare in cucina, incontrai un ragazzo terrorizzato sulle scale. “Come si fa ad uscire?” mi chiese. Provai ad aprire la porta senza successo. Fortunatamente in quel momento arrivò Meni a risolvere la situazione e il ragazzzo potè fuggire.
“Ma è un tuo coinquilino?” chiesi. “No, non l’ho mai visto” rispose lei, e conservando il dubbio andammo a fare colazione.
In cucina c’era la vicina di stanza di Meni e anche quella che aveva la stanza sopra di lei, una specie di sottotetto. Era danese e aveva l’aspetto un po’ rude e per nulla femminile, ma era stata gentile con me e mi aveva prestato il caricabatterie che avevo dimenticato a Bologna.
Credendo di lamentarsi dei vicini turchi con cui condivideva la parete, Meni cominciò a lamentarsi “C’era qualcuno che faceva sesso stanotte, ma tu Anita non hai sentito niente?” “Proprio niente”, dissi io. “Anche io ho sentito qualcosa… era davvero rumorosi!” disse la vicina di stanza di Meni.
La ragazza danese si alzò dal tavolo e portò il piatto sul lavandino.
Qualcuno, stanco dell’accumulo dei piatti in cucina, aveva appeso un cartello “WASH THE DISHES IMMEDIATELY (or buy your own dishes and you can leave them dirty as long as you want)”.
Adorai l’immediatezza dell’inglese. A Bologna avrei potuto rendere lo stesso concetto in mille modi diversi, accentuando la parte severa, dura o ironica a seconda del linguaggio. Ma credo che mai avrei potuto rendere il tutto in una sola frase semplice ed efficace come quella che stava appesa sopra il lavandino.
Mentre lei lavava il suo piatto io, Meni e la sua compagna di stanza continuavamo a lamentarci dei rumori. Uscendo dalla stanza la ragazza danese disse semplicemente: “Comunque se era verso le tre allora probabilmente ero io”. Uscì e noi tre ci guardammo negli occhi sentendoci immensamente cretine. Ecco che ci faceva quel ragazzo misterioso che cercava di uscire.
Nella cucina di Rue de Verbist 15 c’era anche un quadernino per i messaggi. Cose tipo “Che fine hanno fatto i canovacci della cucina?”, “Stasera invito a cena degli amici, chi vuole aggiungersi è pregato di aggiungere il suo nome alla lista sotto.”, “Qualcuno vuole accompagnarmi al concerto degli A Silver Mt. Zion sabato?”. Era vecchio e ingiallito. Ma divertente da leggere.
Quel giorno io e Meni ce ne andammo a Lille, a trovare un amico comune. Ricordo che dopo aver vagato un po’ per la graziosa cittadina ci ritrovammo in un locale intorno ad un tavolo di legno, io, Meni, Guillaume e un suo amico giapponese. Bevevamo un calice di vino bianco dopo l’altro e parlavamo di Amsterdam e commentavamo il depliant del Tgv. Bruxelles sembrava vicina a tutto. A Londra, a Parigi, ad Amsterdam, a Berlino. Guillaume disse che era bello, che anche se abitavamo tutti così distanti potevamo vederci così spesso.
Mentre tornavamo a casa su una qualche linea della metropolitana incontrai Elisa e i suoi amici spagnoli che avevo conosciuto a Berlino. Sapevo che anche loro erano a Bruxelles, ma non mi aspettavo proprio di incontrarli così, per caso, sulla metropolitana.
5.
Il quinto giorno, quando ancora di Bruxelles non avevo visto praticamente nulla, andai a Brugge con Elisa e i suoi amici spagnoli. Era una città molto piccola, carina, pulita e tutto. Ci limitammo ad una lunga, lunghissima passeggiata per viuzze pittoresche. Parlavo inglese, spagnolo e tedesco.
Tornai a Bruxelles e la mia ultima sera in quella città era già arrivata. Non avevo ancora visto nulla e avevo un grosso mal di testa. Andai a prendere Meni al lavoro e ci sedemmo nel primo bar che trovammo. Ordinammo un bicchiere di prosecco e, grazie all’happy-hour, ce ne arrivarono due a testa. Dopo un po’ ci raggiunse anche David, il bellissimo collega di lavoro spagnolo di Meni. Con lui e quattro bicchieri di prosecco riuscii a sostenere la mia prima vera conversazione in inglese, passando da Hannah Arendt alle storie di una notte.

“Tu sei una delle poche persone che conosco che riesce a perdere gli aerei”
“Sì, ma perdo solo i viaggi di ritorno”


Questo post è stato scritto in diverse fasi, dal marzo 2009 fino ad oggi. Quella a Bruxelles, dopo quella a Berlino e prima di quella a Parigi e a Berlino Parte II fu una delle mie fughe in giro per l’Europa nel corso del 2009. Ero tremendamente inquieta e non riuscivo a stare ferma. Parlavo un inglese molto più imbarazzante di quello che parlo adesso e stavo scoppiando di sensazioni. Ho deciso di pubblicarlo adesso perché boh, forse perché mercoledì torno a vedere i The Dø che non vedo proprio da quel concerto.
La canzone è in realtà una cover dei Luna e me l’aveva spedita via mail la persona che a quel tempo mi sopportava amorevolmente.

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La mia vita violenta “Wien and posti abbandonati” edition
Scritto da verdeanita il marzo 19th, 2012 | 5 comments

Detta anche Bewegung, detta anche “Äpflel gibt es auch in Wien“. Più semplicemente gli eventi salienti degli ultimi giorni.

Foto di Daniele

I treni
I treni battono gli aerei, mi dispiace. Anche se sono lenti e ci mettono ore interminabili ad arrivare dall’altra parte. All’andata mi sono gustata tutti gli edifici abbandonati che si vedono lungo i binari vicino a Dresda. Mi sono persa nei miei pensieri guardando lo scorrere di un fiume enorme. Ho parlato con un padre dolcissimo tra Praga e Brno. E poi al ritorno ho scritto tanto, parlato, guardato il fiume di nuovo.

Il Danubio
Il Danubio non è come l’Arno, che spacca Firenze a metà, non è come l’Adige, che abbraccia Verona dolcemente, non è come i fiumiciattoli di Bologna che sono un po’ ridicoli, diciamocelo, non è come la Sprea e i suoi canali che spuntano dappertutto in mezzo alla città. Il Danubio è grande ma per vederlo devi andare fuori dal centro e io l’altra volta non l’avevo visto. Così un pomeriggio ho preso la metro e ci sono andata e per un’ora ho passeggiato lì intorno e non c’era freddo ma non c’erano i colori vivaci della primavera. C’erano locali ancora vuoti e palazzi di vetro. Era esattamente quello che volevo vedere.

Il revival liceale
Io e Lamberto non ci vedevamo da circa due anni e ci siamo incontrati sui binari della stazione di Thaliastraße e siamo andati a mangiare in un locale turco di Brunnengasse. Abbiamo parlato di un sacco di cose, forse anche troppe, perché ogni discorso si diramava in diecimila direzioni e io e lui abbiamo due opinioni completamente diverse, quindi ogni parola andava discussa. Abbiamo anche parlato del Maffei e di quel tempo strano che era il liceo.
Il giorno dopo al Leopold Museum ho trovato il manifesto di Fillmore che avevo usato per fare un manifesto di un concerto. L’avevo anche regalato ad Alex quando era partito e l’avevo ritrovato appeso nella sua casa di New York.

Il WUK di Vienna VS il Tacheles di Berlino
Cosa può diventare una vecchia fabbrica di locomotive? La risposta è „praticamente tutto“. Bettina, una ragazza che avevo conosciuto in Estonia l’anno scorso, ha mostrato a me e a Daniele tutte le stanze di questo centro culturale di Vienna. Atelier, sale per esposizioni, una sala per teatri e concerti, laboratori per il legno, il ferro, le biciclette. E anche una scuola per bambini. Tutto felicemente occupato dalla metà degli anni ottanta.
Le dimensioni e la presenza di tutti quegli atelier e laboratori mi hanno fatto venire in mente il Tacheles di Berlino, di cui proprio mercoledì notte si paventava la chiusura. E mi ha dato un po’ fastidio, questa somiglianza. Perché il WUK, pur senza contratto, è riuscito a costruire uno spazio bellissimo, pulito e funzionale. Il Tacheles, che ha avuto un contratto per anni, ha ancora le pareti sporche che puzzano di piscio. Comunque una delle prime cose che ho fatto al mio ritorno a Berlino è stata andare a controllare che tutto fosse a posto e sì, lo era. Compresi tutti i banchetti che vengono i souvenir hippy peace and love volemmosebenne. Sono anche entrata in una stanza che non avevo mai visto, dove stavano facendo una performance musicale. Una stanza bellissima, grande e decorata con degli stucchi ormai distrutti. Io al Tacheles voglio bene, in qualche modo, anche se a volte mi sembrano troppo legati ad un ambiente alternativo che è troppo poco (o per niente) costruttivo. Anche al WUK c’è gente così, che si lamenta perché hanno cambiato il sistema di serrature perché toglie libertà. Posizioni radicali e inutili. Poi lo so che dentro queste associazioni c’è gente che ci crede davvero e che quasi piange durante le interviste. Detto questo concludo dicendo che le case e le cose occupate sono bellissime.

Le persone che incontri a caso dopo anni in altre parti d’Europa
L’ultima sera a Vienna siamo andati a mangiare. Io, Daniele, Melanie e il suo ragazzo e un’altra ragazza che avevo conosciuto nel 2009 quando ero andata a trovare Meni a Bruxelles (anche lei insieme al ragazzo). Ho parlato abbastanza agilmente in tre lingue ed era veramente bello pensare a tutti i giri di tempo e spazio che ci avevano fatto arrivare tutti lì.

Teufelsberg
Sabato sono finalmente andata a Teufelsberg con Daniele. Era una torre radio americana in mezzo a Grunewald, che con la metro si raggiunge in mezz’ora. Un posto abbandonato, ovviamente. Per entrare bastava trovare un buco nella recinzione (un gioco da ragazzi, per usare una frase fatta). Dentro era tutto vuoto, tutto distutto, tutto ricorperto di cocci di vetro di bottiglie di birra. Un posto utilizzato per rave, grafitti, fuochi. C’era un sacco di gente e tutti avevano una macchina fotografica al collo perché la vista che si vedeva da lì era apocalittica e splendida. Era una bella giornata ma c’era quella nebbiolina grigia tipica delle grandi città che ricopriva tutto il bosco. Probabilmente tutte le foto che abbiamo fatto esistono in quantità enorme sulla faccia di questa terra, come quelle della Torre Eiffel. Fatto sta che vedere questo ciclista che, seduto sul cemento armato, si affacciava sul niente è stata un’immagine che difficilmente mi toglierò dalla testa.

Il sottile confine tra la noia assoluta e l’interesse sconfinato
Ovvero i miei ultimi libri. Uno sulle occupazioni nella DDR (non erano occupazioni politiche e neanche di necessità. Era una cosa un po’ a casaccio di cui forse un giorno vi parlerò) e uno sulla storia della SED che ho comprato al Tacheles per due euro (perché non so quasi niente della DDR. Vabbè, forse più di voi, ma comunque poco per una politologa come me).

“Äpflel gibt es auch in Wien“
La frase che ho ripetuto di più in questi giorni è stata “Vuoi una mela?”. Preoccupata dal lungo viaggio ne avevo portate in grande quantità e Meni mi ha fatto notare che c’erano anche a Vienna. Sono poi rimaste nella mia borsa e mi hanno ristorata durante miei lunghi giri.

E ora ho tre giorni per riposarmi perché giovedì si parte di nuovo.

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